355. Congedarsi da questa vita

 

Il pensiero della settimana, n. 355

 

Già molti decenni addietro un grande del pensiero, Max Weber, diceva, evocando per contrasto antiche parole bibliche, che nel mondo contemporaneo il vecchio muore non più sazio di giorni, ma semplicemente stanco. Da allora quelle parole non hanno ricevuto smentite; al contrario, esse trovano conferma crescente giorno dopo giorno. Aumenta infatti il numero delle persone molto anziane e, nel contempo, si acuisce il contrasto tra i ritmi affievoliti legati a quel lento congedarsi dalla vita e quelli, artificialmente convulsi, propri delle persone prese o dal mondo dell’operare o dalle inquietudini, sociali e psicologiche, legate alla precarietà di un lavoro scarso o nullo. Il tempo vuoto del mancato impegno per il domani non si trasforma così in occasione per condividere il tempo vuoto di chi ha alle proprie spalle un lunghissimo ieri.

In un recente  incontro,[1] l’ abbadessa  del monastero benedettino di Pontasserchio ha sollevato un problema che dovrebbe essere peculiare alla comunità dei credenti in Gesù Cristo; in realtà esso, posto in questi termini, appare più che desueto. Laura Natali, questo è il nome della monaca, ha richiamato il fatto che, quando appare al mondo una nuova vita, è di tutti prestare aiuto perché essa cresca e si sviluppi. In effetti, aggiungiamo, esistono eccezioni riguardo alla cura riservata ai neonati, ma, ancora oggi, esse sono da annoverarsi appunto tra i comportamenti che si collocano fuori della norma. L’esistenza di atti di amore attraverso i quali ci si prende cura del bisogno altrui resta, infatti, paradigma insuperabile perché si sviluppi la vita umana su questa terra. Questo dato di fatto è più radicale dell’esistenza o meno di  sentimenti amorosi. Il farsi carico della salvezza di un bimbo piccolo – sì, di fronte alla sua insufficienza radicale è lecito usare questa espressione – è posto nelle fibre stesse dell’esistenza umana (e in una certa misura anche di quella animale). È obbligo avvertito dalla comunità umana far crescere nuove vite. A partire da questa constatazione, la monaca benedettina si è chiesta che cosa, ai nostri giorni, si faccia per  accompagnare verso la nascita alla vita eterna chi è prossimo  al congedo dall’ esistenza terrena. Qui l’obbligazione non è più avvertita

Il numero delle persone molto vecchie aumenta e sempre più evidente diventa lo spettacolo legato alla loro impotenza. Come avviene nei primi anni di vita, anche negli ultimi si dipende da altri (ce lo ricorda, simbolicamente, anche il vangelo di Giovanni 21,18). A fronte di questo prolungarsi dell’esistenza, si registra una caduta verticale dell’attenzione diretta ai «riti di passaggio» rivolti verso un’altra vita. Da parte degli uomini di Chiesa prepararsi a morire al fine di rinascere è stato presentato troppo a lungo come un atto diretto ad affermare una specie di controllo sulle anime. Che dal compimento di determinati riti, in primis la confessione e in secondo luogo l’estrema unzione (sacramento dei vivi secondo la vecchia classificazione catechistica), dipenda la sorte eterna delle persone è dottrina non più accettabile, quanto meno se esposta e praticata in una forma sacramental-clericale. Essa, in effetti,  ha conservato la sua pregnanza solo fino a quando la dannazione eterna era presentata come un’eventualità concreta. Travolta quella convinzione e posto al centro della fede cristiana un amore del prossimo che si dispiega qui e ora, rispetto al congedarsi della vita delle persone molto anziane (o molto malate) prevale, in quasi tutti, un convincimento esplicito formulabile in queste parole «meglio così, ha finito di soffrire», accompagnato da quello sottaciuto, ma non meno presente, che aggiunge un silenzioso «e far soffrire».

Ai nostri giorni unicamente una radicale riflessione sulla fragilità della condizione umana può porre, in maniera non trionfante e perciò reale, il congedo dall’esistenza terrena nella luce dell’Eterno. Fa parte di questo approccio affermare la nostra incapacità di riempire di contorni descrittivi il riferimento all’Eterno. Nessuna autentica certezza ci è data  su come sia il dopo. Si spera in quel che non si vede (cfr. Rm 8,25). L’evidenza resta confinata nelle parole pronunciate a suo tempo dal sapiente Qohelet: non c’è differenza tra la sorte degli uomini e quella degli animali, come muoiono questi, muoiono quelli (Qo 3,19). Sacralizzare il biologico umano, così come propone l’attuale dottrina cattolica, porta soltanto ad affermare un’assurda astrazione dell’esistenza mortale propria della specie umana rispetto a quella comune a  tutti gli altri viventi. Con ciò si finge di ignorare il legame che unisce tra loro tutti i viventi. Soltanto l’assunzione senza riserve della fragilità intrinseca all’inizio e alla fine della vita dischiude orizzonti di verità.

Piero Stefani

 




[1]Per una vita buona, il coraggio di educare. VII Convegno di vita monastica, Monastero di Marango (VE) 26-28 settembre 2011.

355. Congedarsi da questa vitaultima modifica: 2011-10-08T22:11:00+02:00da piero-stefani
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