352. I luoghi della presenza e dell’assenza (18.09.2011)

Il  pensiero della settimana,  n. 352

 

Nella tradizione cristiana l’espressione «luoghi santi» è notissima. Questi posti  sono  legati a una dimensione memoriale. Essi, dunque, sono segni di qualcosa che è avvenuto lì, o di qualche resto (lo dice l’etimo stesso di «reliquia») che è lì. Nelle culture religiose e anche in quelle secolari, la componente è ben attestata. Segnare il luogo, anche connesso ad avvenimenti non felici, è una tendenza antropologica assai diffusa. Cippi, lapidi, mazzi di fiori collocati lungo le nostre strade sono là a testimoniarlo.

I luoghi santi non vanno confusi con quelli sacri. Questi ultimi sono contraddistinti da una sacralità in atto. In quello spazio separato abita, in una forma o in un’altra, il divino. In altre parole, la sacralità, a differenza del luogo santo,  non ha bisogno della dimensione memoriale. Quando c’è una reliquia il confine tra i due ambiti si fa, però, più sfumato; tuttavia esso è ancora percepibile: a rendere santo il luogo non è una presenza residuale ma quanto essa evoca. Va detto, però, che spesso la pietà popolare si lega a quanto c’è, rapportandosi tattilmente con gli oggetti; in tal modo essa trasforma in sacro quanto è santo e memoriale.

La memoria non è necessariamente legata ai luoghi; anzi, di norma, essa è ridestata da quelli solo se non è continuativa, vale a dire soltanto se è circondata da ampi recinti di oblio. Se i posti in cui abbiamo vissuto tanti anni fa riattivano le immagini dell’infanzia, ciò avviene per il semplice fatto che i  ricordi infantili operano, per lo più, in modo solo latente. Non è perciò affatto un paradosso che la tradizione rabbinica, in cui il ricordo del Sinai non conosce interruzioni, non si sia mai preoccupata di sapere dove si trovi quel monte: su quella vetta nessun ebreo ha compiuto un pellegrinaggio. Il vero Sinai, infatti, è quello raccontato e trasmesso ogni giorno con la parola e non già quello alle cui falde si trova il monastero di S. Caterina (dato e non concesso che quello sia il sito giusto; ma in realtà, quando tutto è presente e vivo, un posto giusto semplicemente non c’è: il memoriale eucaristico o l’azione dello Spirito Santo non dipendono affatto dall’ubicazione del cenacolo).

 Nel XVI secolo l’allora custode di Terra Santa, Francesco Suriano, si pose il  problema di come giustificare la santità dell’intera regione. Per rispondere alla questione non trovò nulla di meglio che affermare che non c’era luogo di quel territorio in cui Gesù non avesse posto i suoi «santissimi piedi». L’affermazione si inscrive in una consolidata tradizione che leggeva in chiave cristologica i luoghi santi al fine di identificarsi profondamente con la vita di Gesù. Si tratta di una scelta consona alla fede cristiana; tuttavia essa, quanto meno al giorno d’oggi, deve essere consapevole di alcuni presupposti. Il primo è che, da tempo, quei luoghi hanno poco a che fare con il vissuto reale che si svolge in quella terra. L’unica, peraltro non trascurabile, eccezione la si trova nell’indotto economico prodotto da pellegrini e turisti (due termini che, spesso, si identificano). I luoghi santi formano un circuito avulso dal tessuto concreto dell’odierno Israele e dell’attuale Palestina. Chi si limita a visitarli, dovrebbe, quindi, essere conscio che si preclude la conoscenza della terra che pensa di andare a visitare. Vi è poi l’aggravante che quei luoghi sono sottoposti, a opera delle varie Chiese cristiane, a una logica legata al possesso e, dunque, alla spartizione (l’emblema massimo di ciò è, come noto, la condizione “condominiale” che vige al Santo Sepolcro). In effetti, solo una profonda e condivisa riflessione, non solo storico-culturale ma anche teologica, sul fatto che proprio nei luoghi in cui visse Gesù i cristiani sono, da molti secoli (ossia dal fallimento dell’impresa crociata,  riferimento di per sé ben eloquente), una esigua minoranza in società musulmane ed ebraiche potrebbe dare uno spessore riflessivo a quelle visite. Scarse, o addirittura nulle, sono però le tracce di questa forma di pensare.

Un’altra precondizione indispensabile per dare un autentico significato alla visita dei luoghi santi, è di attenersi alla logica del «come se». Occorre accostarsi a quei posti assumendoli per quel che si presentano senza ricercare prove documentarie. Qualora le si pretendesse, la maggior parte di esse non reggerebbe alla prova. Bisogna assumere, con  profondità nuova, la prospettiva di quella che un tempo si denominava «pia tradizione», un approccio imparentato con una «santa finzione». In prospettiva storica i piedi di Gesù non hanno solcato l’intera terra d’Israele. Molti sono i dubbi e le incertezze su questo o  su quel posto in cui Gesù operò o parlò. Alla fin fine si dice che è certo, quanto meno, il lago di Tiberiade. Ma è ben lecito chiedersi cosa abbia  da spartire quel lago ricco di bagnanti, di sciatori e moto d’acqua, di battelli imbandierati che fanno suonare i vari inni nazionali in base alla provenienza dei pellegrini,  con il mare di Galilea dell’epoca di Gesù. Anche quando è lo stesso, non è più lo stesso.

Diverso il discorso collegato, per limitarsi alla Galilea, ai resti delle grandi città giudeo-ellenistiche di Bet Shean (sul cui tel Pasolini ambientò la morte di Gesù) o di Zippori, proprio ai piedi di Nazareth; per non parlare di Tiberiade e di Cesarea Marittima tuttora abitate.. In tutte quelle città, a volte vicinissime ai luoghi in cui annunciava il vangelo, Gesù non è mai entrato (o quanto meno nessuna fonte ne parla). In larga misura il «Gesù storico» è semplicemente il Gesù ricostruito dagli storici; vale a dire, non è che un’immagine ipotetica, più o meno attendibile, a seconda del rigore della ricerca compiuta. Sicuramente non è il “vero” Gesù, esattamente come non lo è quello di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Ogni immagine che abbiamo di Gesù è, in effetti, frutto di una ricostruzione, sia essa di fede o laica. Tuttavia per la comprensione del vangelo – e non solo da un punto di vista storico – resta di gran lunga più fruttuoso chiedersi dove Gesù non è stato che individuare presunti luoghi dove egli ha pronunciato le Beatitudini o si è trasfigurato sul monte. Per quanto i consueti pellegrinaggi cristiani non se ne accorgano, non è indifferente constatare che Gesù abbia trascurato le grandi città in cui si intrecciavano la cultura greca e quella ebraica per annunciare il vangelo in villaggi e piccoli centri. Solo nella parte finale la sua vita avrebbe avuto a che fare con una grande città (la sua morte avverrà  però fuori delle mura); essa, tuttavia, non è sita in Galilea.

Piero Stefani

352. I luoghi della presenza e dell’assenza (18.09.2011)ultima modifica: 2011-09-17T09:39:00+02:00da piero-stefani
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