351. Campo profughi (11.09.2011)

Il pensiero della settimana, n. 351

 

Nei territori amministrati dall’Autorità Nazionale Palestinese acqua ed energia elettrica sono sotto controllo israeliano. I palestinesi dicono: ci portano via l’acqua e non possiamo neppure scavare pozzi nelle nostre terre; gli israeliani affermano di essere loro a portare l’acqua ai palestinesi che non la pagano neanche (in effetti sono indebitati per somme ingenti). Anche a Betlemme, nel campo profughi di Aida, l’acqua e la sua mancanza sono all’ordine del giorno. Dall’alto di una terrazza ci fanno vedere la selva di cisterne sui tetti palestinesi (l’acquedotto funziona solo poche ore al giorno quando va bene) e la mancanza di cisterne sull’insediamento israeliano di Ghilo (fondato nel 1971 e parte integrante della municipalità di Gerusalemme), distante in linea d’aria qualche centinaio di metri, contraddistinto da tetti di tegola spioventi.

I campi profughi non sono realtà urbanistica; da fuori, spesso, non sono neppure distinguibili. La guida passando fa notare: «Qui comincia un campo»; lo afferma mentre si è all’interno di un tessuto viario, compatto, senza quell’informazione nessuno se ne accorgerebbe. Spesso un vicolo segna l’inizio e un altro la fine di un campo. Solo Aida ha monumentalizzato l’ingresso con un arco sopra il quale vi è un’enorme chiave, il simbolo dell’ (impossibile) ritorno. Dicono sia la più grande al mondo. Il monumento è stato inaugurato da Abu Mazen. Essere profughi non è neppure una dimensione sociale. Non tutte  le 5000 persone che abitano Aida sono  povere. Lo si può constatare  dalle case: alcune di esse non son  prive di ambizioni architettoniche, anche alcuni interni dimostrano qualche pretesa. L’edilizia, come ovunque, è disordinata. Le case crescono in altezza progressivamente, generazione dopo generazione, il nonno fece il pian terreno, il figlio vi aggiunse il secondo, il nipote il terzo.

 Oltre alla monumentalizzazione della porta d’ingresso, ad Aida  vi è un abbozzo di piazzetta-anfiteatro costruita affianco al “muro di difesa” israeliano. Qui, in questa zona di Betlemme, il muro si presenta particolarmente prorompente e ricco di anse. A poche decine di metri dal campo c’è la tomba di Rachele; essa è stata circondata in modo tale da escluderla dal territorio palestinese e consentirvi il tal modo il libero accesso agli israeliani. L’operazione ha comportato la chiusura del primitivo ingresso del campo  e l’apertura di un altro. L’anfiteatro è stato costruito per la visita di Benedetto XVI nel 2009, le autorità israeliane non hanno, però, dato il permesso di usarlo (era evidente che la visita papale doveva essere l’occasione per mostrare il muro al mondo intero, e le immagini, in effetti, lo fecero ugualmente vedere). Il papa è stato ricevuto, perciò, nella scuola dell’UN che si trova poco distante; ci fanno notare  le finestre ridimensionate per via dei colpi di arma da fuoco che la colpivano all’epoca della seconda intifada. Oggi la piazzetta in cui avrebbe dovuto avvenire l’incontro è diventato un simbolo da mostrare ai visitatori (è inserito anche nei video di presentazione del campo)  forse in modo ancor più intenso di quanto non sarebbe stato se Ratzinger vi avesse pronunciato effettivamente un discorso. La diffusione dell’immagine del “mancato incontro” resta comunque, per forza di cose, limitata.

La condizione dei profughi, quella che li rende effettivamente tali e non li fa integrare a pieno titolo nella società circostante, è, in primis, giuridica. I campi restano legati all’UNWRA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati e i profughi. A quest’ultima spetta la competenza sull’istruzione, sulla sanità, sulla raccolta dei rifiuti (i grandi raccoglitori di metallo per portar via il pattume hanno impressa sopra la sigla UN). I profughi hanno carte di identità che sanciscono la loro natura di rifugiati, non sono cittadini di Betlemme, possono lavorarvi ma non risiedervi a meno di perdere la condizione di rifugiati. Accanto alla dimensione giuridica, quanto caratterizza la cultura del campo è la retorica del ritorno alle case da cui i padri e i nonni furono scacciati nel lontano 1948. I nomi dei villaggi di provenienza sono posti in evidenza quasi ovunque. Dipinti  sull’esterno, scritti all’interno soprattutto sulla stele che si presenta come una specie di monumento di fronte al quale si svolgono le cerimonie ufficiali.  La sintesi  tra l’aspetto giuridico e quello narrativo è costituita dal ricorso a una storica decisione delle Nazioni Unite. I rifugiati si appellano, infatti, alla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’ONU (11.12.1948) che, nel suo art. 13, stabilisce il diritto di  ritorno alle loro case da parte dei rifugiati che lo desiderano e l’indennizzo negli altri casi.[1]

L’eventuale (e, allo stato attuale, assai improbabile)  firma di un accordo tra Israele e ANP che prevedesse l’effettiva nascita di uno stato palestinese indipendente entro i confini precedenti al 1967, comporterebbe  la fine del lungo racconto dei profughi, o meglio, a loro resterebbe solo una narrazione  priva di qualsiasi riscontro politico, persino sul piano semplicemente retorico. Non a caso, quando a Ramallah, a un alto dirigente dell’OLP è stata posta una domanda sul ruolo da assegnare alla risoluzione 194, la sua risposta è stata chiara: essa indica la via degli indennizzi e  non del ritorno alle proprie case. Come avvenne e avviene per la maggior parte degli esuli, in caso di accordo tra stati, il suolo degli avi per i rifugiati sarà consegnato solo a una narrazione, di norma, via via meno struggente, incentrata su quanto si è perduto. Per molti secoli fu così anche per gli ebrei. Poi, in  modo del tutto imprevisto, a iniziare dal XIX secolo si svilupparono i movimenti sionisti che riportarono parte del popolo ebraico sulla terra in cui i loro antenati pensavano di poter abitare, in modo stabile, solo in epoca messianica.

 

Piero Stefani

 

 




[1]  L’articolo 13 della Risoluzione 194 stabilisce che ai rifugiati che desiderino tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini sia consentito farlo al più presto possibile e che i governi o le autorità competenti si impegnino al risarcimento delle proprietà di coloro che hanno scelto di non ritornare, in virtù dei principi del diritto internazionale.

351. Campo profughi (11.09.2011)ultima modifica: 2011-09-10T06:00:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo