347. Spirito, ideologia e laicità (03.07.2011)

Il pensiero della settimana n. 347

 

 

  Nel 2011, in modi e forme diverse, è cresciuta l’attenzione riservata a due personalità le quali, pur assai differenti tra loro, sono accomunate dalla volontà di affrontare problemi in larga misura uguali, a cui, peraltro, danno risposte radicalmente diverse. Si tratta della filosofa Roberta De Monticelli  e del card. Angelo Scola. La prima è autrice di un libro, La questione morale (Raffaello Cortina, Milano 2010) che  continua a suscitare vasto interesse; il secondo è stato nominato in questi giorni arcivescovo di Milano (cfr. pensiero n.  343).

   Le circostanze invitano a riandare indietro di qualche anno e  a confrontare tra loro due testi, rispettivamente di De Monticelli (Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani, Baldini e Castaldi, Milano 2007) e di Scola (Una nuova laicità,  Marsilio, Venezia 2007)[1] che attestano una polarità che, al di là delle due trattazioni specifiche, caratterizzeranno  la vita della futura diocesi milanese (e non  solo).

   I due libri sono molti diversi per intenti, stili e orientamenti. Se li si accosta è soprattutto per il fatto che entrambi – pur nella varietà degli argomenti trattati – si confrontano, in buona sostanza, con un nucleo centrale riassumibile con queste parole: «il mix religione e politica sarà il tema dei prossimi cinquant’anni» (M. Burleigh) (cit. in Una nuova laicità, p. 10). Infatti sia l’ormai ex  Patriarca di Venezia sia la filosofa dell’Università S. Raffaele si misurano, da prospettive divergenti, con il problema del confronto religione – laicità così come si prospetta all’interno di società plurali. Scola lo fa raccogliendo, su invito dell’editore, una serie di suoi interventi pubblici che trattano di laicità, bioetica, scuola, beni culturali, ambiente ecc.. Dal canto suo De Monticelli ha scelto di dare al proprio scritto (mosso, in gran parte, dalle vicende legate al caso Welby) la forma di lettera scritta a imprecisati amici cristiani. Si potrebbe sostenere che in un caso abbiamo un vescovo che vuole offrire alla civitas le proprie argomentate considerazioni, mentre, nell’altro, ci si trova davanti a una pensatrice che si rivolge ai credenti per ragionare con loro della fede e delle conseguenze che da essa derivano – o al contrario non dovrebbero derivare – rispetto alla convivenza comune.

   In De Monticelli ‘spirito’ e ‘ideologia’ si presentano come dimensioni drasticamente alternative. Per lei valutare la propensione tipica di un certo cattolicesimo contemporaneo di presentarsi come garante collettivo dei valori pubblici, equivale a domandarsi quali fattori abbiano trasformato lo ‘spirito’ in ‘ideologia’. La risposta è netta: è la scelta di nominare falsamente (più che invano) il nome di Dio, vale a dire l’opzione volta a  renderlo un idolo. Detto in altri termini, è la volontà di applicare alla fede in Dio il detto di Tucidide secondo cui: «Degli dei crediamo, e degli uomini sappiamo, che dominano ovunque possono» (Sullo spirito…, p. 144).  Per comprendere meglio questa posizione occorre tener conto della genealogia che si trova alle spalle di questo processo di ideoligizzazione della fede. Per ricorrere a una terminologia non esplicitamente impiegata dal testo, l’analisi potrebbe essere riassunta lungo questa pista: il processo che  ha aperto le porte a una versione ideologica della fede consiste,  da un lato, nell’aver ricondotto tutto al piano dell’ethos e, dall’altro, nell’aver reso questa scelta un modo per abitare nel mondo  esercitando la pretesa di ammaestrarlo.

   L’ideologia comporta la decisione di parlare un linguaggio mondano in nome della fede perciò essa ha la  necessità sia di “entificare” il riferimento a Dio («Che Dio sia un ente, lo credono soltanto i peccatori» Eckhart,  cit in Ib., p. 50) sia di appellarsi in maniera determinante all’autorità anche quando ci si muove all’interno di un supposto linguaggio comune. Questo caso risulta palese nel riferimento alla legge naturale la quale dovrebbe, per definizione, essere di tutti e che invece viene prospettata tale solo in quanto garantita dal magistero. Una parte dell’attività di quest’ultimo consiste, perciò, nella volontà di definire, in proprio, la ragione. Appunto su questo terreno sorge però una dicotomia tra quanto si denuncia e quel che si afferma: «Vorrei solo fare una domanda: se la ragione non illuminata dalla fede è così malridotta, così strumentale, tecnica, storicista, scientista e nichilista, come farà a vederli questi “principi antropologici ed etici”?» (Ib., p. 38). Per replicare all’ideologia occorre, quindi, contrastare la pretesa che la fede abiti il mondo nella sua qualità di collante sociale: «il Cristianesimo non è una religio, un legame, ma il suo contrario: è la vita dello spirito, ove, soltanto, è libertà» (M. Vannini, cit. in Ib.,  137).

    Anche Scola vuole rispondere al prospettato e inquietante mix tra religione e politica (e aggiungiamo ethos); lo fa però per una via molto diversa dalla precedente. Alla base delle linee da lui prospettate ci sono alcuni convincimenti di fondo. A volte essi emergono palesemente alla superficie, altre volte operano dall’interno e si rifrangano sulle argomentazioni senza essere apertamente enunciati. I principali tra essi sono: il fatto che la caratteristica saliente della verità cristiana è di essere legata alla persona di Gesù, il che implica che i credenti imbocchino la via della testimonianza; la storia come realtà guidata da Dio verso un fine salvifico; l’inaccettabilità  e l’anacronismo della contrapposizione (di ascendenza barthiana) tra religione e fede e quindi l’integrale recupero sia del nesso fede-cultura, sia della valenza positiva del naturale anelito umano aperto verso Dio senza pregiudicare  con ciò l’integrale libertà umana. Accanto a questi grandi temi teologici, Scola esprime la propria convinzione secondo cui  «lo stato, modernamente inteso, è chiamato a essere una funzione della società civile, a sua volta formata da persone che vivono rapporti vicendevoli nei cosiddetti corpi intermedi, il primo dei quali è la famiglia» (Una nuova laicità, p. 28).

    Dall’intreccio di questi fattori nasce la possibilità di dar corso a una «sana laicità» (Ib., p. 16) la quale deve «consentire a me credente di operare nella convinzione che Dio regge ultimamente la storia, con decisive implicazioni sul vivere civile, e deve riconoscere pari diritti e doveri a chi nega questa ipotesi con tutte le fibre del suo essere» (Ib., 21). Una delle più qualificanti ricadute per il credente di questa impostazione sta nel fatto che, in virtù del quadro prima descritto, la testimonianza possa estrinsecarsi, oltre che nella dimensione alta del martirio (cfr, Ib., pp. 62-64; 161), anche in quella più orizzontale della proposta (cfr. Ib. p. 22), ambito, quest’ultimo,  certo rispettoso della libertà altrui, ma anche indirizzato a esprimere convincimenti volti a incidere in modo diretto sulla società civile.

L’espressione più riassuntiva del pensiero espresso dal card. Scola pare riassumibile sotto l’etichetta di «sana laicità» (più che «nuova»); frase in cui l’aggettivo prevale sul sostantivo in quanto la funzione di “ufficiale medico” è appannaggio di chi è in grado di testimoniare Cristo e, con ciò stesso, di additare agli altri la sola via in grado di raggiungere la pienezza dell’umano. Per esprimerci in termini forti, la «sana laicità» garantisce uguaglianza formale e rispetto tra tutti i membri della società, ma  nega, in senso qualitativo, la pari dignità umana a chi vive secondo un’etica priva di Cristo. Questa visione antropologica – in definitiva integrista – ha come sua inevitabile ricaduta il convincimento stando al quale, per itinerari  simmetrici, sia la fede sia la morale restano spaesate se non sono ricondotte nell’alveo della religione. Ha scritto di recente Angelo Scola: «Senza nulla perdere del suo valore universale, anzi confermandolo, la moralità acquista nel cristianesimo la consapevolezza che il senso del bene antropologico e morale ha nella relazione il luogo privilegiato della sua genesi. La centralità del rapporto con la persona umano-divina di Gesù mostra così in modo unico ed esemplare l’universalità personalista  ovvero il personalismo universalista dell’esperienza morale» (A. Cavarero, A. Scola, Non uccidere, il Mulino, Bologna  2011, p.28).

 

                                                                                                                               Piero Stefani




[1]Riprendo qui largamente il testo apparso su Il Regno-Attualità 16,2007,  p.554

 

347. Spirito, ideologia e laicità (03.07.2011)ultima modifica: 2011-07-02T02:23:00+02:00da piero-stefani
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Un pensiero su “347. Spirito, ideologia e laicità (03.07.2011)

  1. Mi sembra che manchi una conclusione a quanto scrive Piero Stefani, e cioè il suo personale atteggiamento per le due visioni proposte. Non ho letto nessuno dei due testi citati e lo farò, però in aggiunta alla descrizione della due diverse posizioni l’aiuto della analisi critica di un terzo è sicuramente molto utile, soprattutto per chi come me fa un po’ fatica a leggere testi filosofici. Il tema della fede, della religione e della morale interessa tutti e nel futuro una delle due visioni potrebbe far “scomparire” l’altra, e ciò dipende anche da noi tutti non solo dai luminari filosofici o della gerarchia.

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