342. I 150 anni. Un primo bilancio (29.05.2011)

Il pensiero della settimana 342

  Con ogni probabilità il prossimo 2 giugno segnerà la fine della fase ascendente delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia. In quella data il presidente Napolitano coronerà il suo impegno e consegnerà a un successivo lento declino l’attenzione  per l’anniversario.  Alla vigilia di quel discorso si può già tentare un primo bilancio.

Quanto ha contraddistinto le celebrazioni (contrassegnate da un risveglio di patriottismo di portata inattesa) è stata, innanzitutto, la valutazione totalmente positiva del Risorgimento formulata da uomini formatisi politicamente e culturalmente a sinistra. Il primo tra essi è l’attuale capo dello Stato. Ciò è avvenuto lasciando ai margini il mito fondativo della ritrovata unità nazionale: la Resistenza. Nelle celebrazioni tutti sono stati, per così dire, «crociani», hanno cioè, implicitamente, giudicato il fascismo un’aberrazione improvvisa sorta in un corpo sano. Mentre può dirsi chiuso da tempo il richiamo all’internazionalismo marxista, continua a essere fonte di qualche stupore la disattenzione mostrata, a sinistra, per la questione sociale, campo qualificante di una lunga stagione storiografica e civile. La politica l’ha vinta sulle dinamiche economico-sociali. L’approccio marxista è stato ignorato anche per quei suoi apporti che, per quanto assunti criticamente, appaiono ancor oggi difficili da accantonare in maniera assoluta.

Naturalmente non si è palesata alcuna corposa attenzione per il primo decennio post-unitario, specchio anticipante di tanti lati oscuri della successiva storia italiana. La feroce lotta contro quello che (impropriamente) si era soliti chiamare «il brigantaggio meridionale dopo l’unità» è stata una vera e propria guerra civile in cui si è formato l’esercito italiano. Per stroncare quella ribellione si sono applicate forme di repressione spietate (cfr. «legge Pica»). Sul piano internazionale la «Convenzione di settembre» è stata seguita, nel giro di pochi anni, dall’incapacità italiana di mantenerne alcune clausole (cfr. l’impresa garibaldina di Mentana). Il XX settembre è stato reso possibile solo in virtù della vittoria della Prussia sulla Francia; alla stessa  potenza si deve la nostra conquista del Veneto dopo i disastri di Custoza e di Lissa (cfr. Di chi è la colpa? di Pasquale Villari). Il rigore dei conti pubblici comportò la famigerata tassa sul macinato di cui furono gravate le classi popolari, misura fiscale antesignana del prevalere delle certe imposte indirette sulle evadibili imposte dirette. Inoltre il liberismo della nuova classe dirigente inferse un duro colpo all’economia meridionale  cresciuta all’ombra del protezionismo borbonico. Tutti questi punti possono ben essere sottoposti a periodiche «revisioni storiografiche»; comunque, resta arduo trascurarli.

L’altro tasto battuto e ribattuto è stato l’apporto cattolico all’unità d’Italia. L’inedito guelfismo sbandierato dalla Chiesa italiana non ha avuto la replica che ci si sarebbe potuti attendere. Anzi questa pretesa ha trovato un atteggiamento benevolo e compiacente anche in sede istituzionale. Le ragioni di opportunismo politico sono fuori discussione; ma non ci si può limitare a ciò, occorre scavare un po’ di più.

Le prospettive avanzate dalla Chiesa cattolica hanno la loro parte di verità nel rivendicare il fatto che, nell’Ottocento, la stragrande maggioranza della società italiana era cattolica. Solo l’avanzare del socialismo (e in qualche zona dell’anarchismo) è stato in grado di produrre un altro tipo di radicamento popolare. Ma anche in questi casi, quasi tutta la popolazione (compresi gli strati dell’alta borghesia laica) accettava la logica  che (secondo gli stilemi propri della Chiesa post-tridentina) i sacramenti fossero porta di accesso all’aldilà. Anche i laici battezzavano i figli neonati e al loro letto di morte chiedevano il prete. La Chiesa era accreditata di avere le chiavi di accesso a una sfera ultraterrena sottratta, per definizione, a tutte le forze economiche e politiche. Questo fatto (come a suo tempo ben colse Hobbes) costituiva una effettiva forma di esercizio di potere.  È certo che esso risultasse più efficace dell’odierno appello ai valori non negoziabili. Anche per questo motivo il controllo sulla società compiuto oggi dalla Chiesa cattolica è assai inferiore di quanto fosse 150 anni fa.

La rilevante parte di errore contenuta nell’analisi cattolica ufficiale sta nell’aver indebitamente trasformato il predominio sociale in un primato nazionale aperto alla forma di stato unitario. Operazione, quest’ultima, compiuta in nome dei valori e non dei sacramenti o della trascendenza. L’Italia unita recepì lo statuto albertino stando al quale il cattolicesimo era religione di stato, ma ciò conviveva con la constatazione che la classe dirigente fosse, in buona parte, scomunicata e che il «non expedit» proibisse ai cattolici di partecipare alla vita politica. È un dato di elementare verità storica affermare che, all’epoca, la massima parte della Chiesa cattolica non legittimò lo stato unitario. A poco a poco, essa vi si rassegnò e cercò di riconquistare il predominio  con il concordato del 1929.

Lo scarso interesse ricevuto, in ambito celebrativo, dalla dimensione sociale ha consentito di cavalcare l’equivoco di trasferire in sede nazionale e politica il predominio cattolico presente nella società ottocentesca. L’intransigentismo cattolico che si aperse all’impegno sociale proprio per contrastare lo stato unitario (cfr. per es. don Albertario) è un fossile che nessuna ricerca archeologica si è dato la pena di portare alla luce nelle celebrazioni del 2011. Esse, in effetti, si spiegano per la massima parte  come un tentativo di rispondere alla Lega. Senza quella sponda, tutto avrebbe avuto un tono emotivamente più basso. Non è neppure detto che alcuni esiti, meno brillanti del previsto, riportati dalla Lega nelle ultime elezioni amministrative si spieghino, sia pur in piccola parte, anche in virtù dei tricolori che imbandierano ancora le nostre città, senza, ovviamente, dimenticare la presenza di altri fattori (tra essi, almeno per l’Emilia Romagna, c’è sicuramente anche il successo elettorale dei «grillini»).

Piero Stefani

 

Aggiunta al pensiero  341.

Nelle piazze spagnole in effetti, c’è ancora spazio anche per l’icona libro. Il pamphlet Indignatevi! del vegliardo Hessel è diventato il simbolo che ha ispirato il nome stesso del movimento

342. I 150 anni. Un primo bilancio (29.05.2011)ultima modifica: 2011-05-28T06:08:00+02:00da piero-stefani
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