In pensiero della settimana n. 334
La lettera scritta da Benedetto XVI al presidente Napolitano in occasione del 150° dell’unità d’Italia è un esempio, tra i tanti, di consapevole manipolazione della verità storica piegata a interessi politico-istituzionali. Nella prefazione della seconda parte di Gesù di Nazaret (Libreria Editrice Vaticana, 2011), Ratzinger ammonisce sulla ovvia non assolutezza delle verità storiche incapaci, in quanto tali, di fondare la fede. Si potrebbe, però, pensare a un tipico ragionamento a fortiori presente anche nel vangelo: chi è fedele nel poco lo è anche nel molto, analogamente nel caso in cui si sia disonesti (cfr. Lc 16,10). Essere rigorosi difensori di piccole verità non assolute è un buon allenamento per diventare cultori di gradi verità poste su altro piano; e, a parti rovesciate, essere manipolatori di piccole, ma accertabili, verità getta un non immotivato sospetto sulla integra fedeltà con cui ci si rapporta alla Verità.
Pigliamo il profilo più basso e discutibile tra tutti, quello degli omissis. Di norma non c’è nulla di più tendenzioso e perciò, se si imbocca questa strada, non ci si emancipa, di solito, dal gioco che si vuole denunciare. Eppure, a volte, il non detto rivela più del detto, anche quando ci si trova sulla via obliqua – e perciò facilmente criticabile – di citare qua e là fuori contesto.
All’interno della lunga lettera, scegliamo fior da fiore, secondo la più discutibile delle linee: «Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana». Rispetto ai primi nomi, perché non Boccaccio? Da allora fino a ora, lo spirito italiano impastato, malgrado tutto, di cattolicesimo, si è identificato molto più con il Decameron che con il Canzoniere; e ciò vale tanto per i ceti popolari quanto per quelli borghesi; tanto per gli ecclesiastici quanto per i potenti di ieri e di oggi. Del resto in questa «filiera» l’irregolarità della vita personale, al solito, non conta, altrimenti perché citare Caravaggio?
L’omissis più macroscopico è però un altro. Si tratta di un nome studiato anche in sede di letteratura italiana. Parliamo, è scontato dirlo, di Galileo, colui che scrisse in italiano quanto fino ad allora era riservato al latino. Per una Chiesa non ipocrita sarebbe stato il primo nome da citare, anche al fine di confutare, attraverso la sincerità, l’uso strumentale fattone da altri. Ciò vale anche per Savonarola e Giordano Bruno, icone anticlericali dell’Ottocento risorgimentale e postrisorgimentale, ma che proprio per questo, secondo le piccole verità storiche, si sarebbero dovuti citare.
«Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero – e talora di azione – dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; …». Un tempo si insegnava, e svogliatamente si studiava, che l’autore del Primato civile e morale degli italiani era un federalista che individuava nel papa, sovrano di un proprio stato, il capo della confederazione italica. Nella storia più volte si è assistito a una «eterogenesi dei fini», ma ciò non va a merito dei suoi involontari iniziatori.
La lettera papale rivendica, giustamente, il contributo dei cattolici alla Costituzione, ma tace il nome di Luigi Sturzo e del Partito Popolare rispetto al cui scioglimento la Chiesa avrebbe dovuto ammettere una responsabilità diretta; ma ciò avrebbe implicato parlare del fascismo, termine rigorosamente assente nell’intero scritto. Si esaltata più volte la Conciliazione, quasi che essa fosse da collocarsi nell’ambito della metafisica e non in quello della storia. Ci si fregia di don Bosco che, in un contesto separatista, «modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: “cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa”», ma si tace del colto Pio XI che individuava una delle ragioni della Conciliazione nel fatto che la Provvidenza gli aveva fatto incontrare un uomo, Benito Mussolini, non allevato nelle dottrine liberali.
In assoluto, l’omissione più grave del testo è quella di un nome scomodo: «guerra». Tuttavia senza questo riferimento nulla si spiega. Molto ci sarebbe da dire a proposito dei due grandi conflitti del Novecento, ma, pur essendo evento di ben diversa portata, oggi, per certi versi, è urgente ricordare soprattutto il globale appoggio cattolico alla guerra di Libia del 1911-1912; un passaggio non banale verso la «conciliazione». Giusto un secolo fa. Ora ancora là è guerra, con un’Italia incerta e titubante a causa del suo passato e del suo presente. Senza dimenticare che, in questi giorni, la nostra residuale dignità nazionale si misura sull’isoletta di Lampedusa (mentre appare ormai perduta quella delle aule parlamentari).
Piero Stefani