326. La Bibbia, Shakespeare e le degenerazioni del potere

Pensiero della settimana n. 326

 

Allorché si pone l’attenzione su alcuni degli enormi influssi avuti dalle pagine bibliche  sulla storia e sul pensiero dell’Occidente si è colpiti dalla presenza di una perenne, irrisolvibile oscillazione: in esse vi è lo slancio verso la giustizia e la libertà e c’è la presa d’atto della finitezza della politica. Da un lato vi è l’anelito verso la liberazione contenuto nel «paradigma esodico», dall’altro si palesa la consapevolezza secondo cui il limite originario della condizione umana impedisce di instaurare, nell’orizzonte storico, una società perfetta. Pur nella varietà dei temi e delle prospettive, questa duplice indicazione risulta sempre percepibile. Essa non può trovar riposo in alcuna stabile sintesi. In effetti, nella sfera politica, cogliamo un riflesso  della mobilità antropologica che indusse Pascal, sulla scorta del Vangelo, ad esaltare l’uomo quando egli si umiliava e a umiliarlo quando si esaltava. Senza il potere l’insicurezza regnerebbe sovrana; eppure è vero anche il contrario: il potere può essere fonte del caos peggiore.

Nel libro dei Giudici si legge che Abimèlec, figlio di Gedeone,  in combutta con i signori di Sichem, conquistò il potere facendo uccidere, su un’unica pietra, i suoi settanta fratelli (cfr. Gdc 9,1-6). Dalla carneficina si salvò solo Iotam. A quest’ultimo si deve il fantasioso apologo degli alberi indirizzato ai signori di Sichem. Iotam raccontò che gli alberi si misero in cammino per eleggere sopra di loro un re. L’ulivo, il fico, la vite non vollero rinunciare ai loro frutti per andarsi a librare sopra i colleghi. Alla fine ci si rivolse al rovo, il peggiore, che accettò subito la nomina accompagnandola con parole di oscura minaccia (cfr. Gdc 9,7-21). Un dramma della politica è che non si può fare a meno del governo. Eppure, di frequente, il potere cade nelle mani dei peggiori; ciò avviene anche perché, spesso, i migliori rifiutano di assumere le responsabilità pubbliche che a loro competerebbero. Queste degenerazioni sono ben note tanto alla Scrittura, quanto ad alcune grandi pagine della letteratura occidentale.

Il Macbeth di Shakespeare  è un conglomerato di sottotesti biblici e ci si può chiedere, con fondamento, se è per questo motivo che, in quella tragedia, scorre tanto sangue. Nessun accostamento è diretto, nessuna citazione è esplicita; eppure i rimandi sotterranei sono numerosi e, a volte, non difficili da decifrare. Il quadro generale attesta più che mai l’esistenza di un caos dall’alto capace di innescare un processo di autodistruzione dei potenti. 

L’accostamento biblico più riconosciuto consiste nell’individuare nella regina Gezabele  il modello ispiratore della figura di Lady Macbeth. Ciò vale soprattutto nei primi atti, quando la futura regina è istigatrice, apparentemente sicura di sé, dell’assassinio del re Duncan; azione che, in un sol colpo, estingue, oltre a una vita umana, anche i principi della lealtà, della parentela e dell’ospitalità. La storia shakespeariana ha dei precedenti. Gezabele era moglie del re di Israele Acab. Quest’ultimo espresse l’intenzione di entrare in possesso della vigna di Nabot attraverso una regolare permuta o un acquisto; tuttavia il proprietario non accettò di vendere quanto aveva avuto in eredità dai propri antenati. Il re cadde allora in depressione, ma Gezabele lo spronò all’azione iniqua: «Tu eserciti così la potestà regale in Israele? Alzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot di Izreel» (1Re 21,7). Dal canto suo Lady Macbeth si rivolse al marito in questi termini: «Bisogna occuparci di colui che arriva [il re Duncan]: e voi affiderete a me il disbrigo della grande faccenda di questa notte, che sola potrà dare a tutte le nostre notti e i giorni a venire assoluta sovrana autorità e signoria…» (Macbeth Atto I, scena V). Seguono i due assassinii, entrambi dissimulati in ragione dei perversi progetti delle due donne: nell’episodio biblico si creò, ad arte, una falsa accusa che portò alla condanna a morte di Nabot (1 Re 21,8-16); nella tragedia shakespeariana si fece credere all’esistenza di falsi esecutori (i due ciambellani) e di presunti  mandanti (i due figli di Duncan).

Meno immediato, eppur dotato di qualche pertinenza, è l’accostamento tra la consultazione della negromante di Endor da parte del re Saul (1 Sam 28,3-25) e la visionaria evocazione di responsi chiesti da Macbeth alle streghe (Atto IV, scena  I). Ben più corposa e sanguinante è, invece, la somiglianza tra il modo di agire di Macbeth,  volto a eliminare i suoi  potenziali rivali, e le ripetute stragi parentali presenti nella Bibbia. Quella compiuta da Abimelec è il prototipo di una lunga sequela. Non a caso quell’assassinio di massa sarebbe stato replicato, in termini quasi identici, negli strascichi della storia di Gezabele. Dopo che la regina fu uccisa attraverso una defenestrazione (2 Re 9,30-37), per ordine di Ieu furono sterminati i settanta figli di Acab re di Israele (2 Re 10,1-11), a cui si aggiunsero, ben presto, i quarantadue fratelli di Acazia re di Giuda (2 Re 10,12-14). Segue la vicenda di Atalia (figura ispiratrice dell’omonima tragedia di Racine), madre di Acazia, che si propose, a sua volte, di annientare tutta la famiglia del re Ioram;  tuttavia suo nipote Ioas,  scampato da morte, sarebbe diventato, a propria volta, re dopo l’uccisione di Atalia (2 Cr 23,1-15) (anche il figlio di Banquo, a cui le streghe avevano profetizzato il regno, riuscì a salvarsi).

Questi e molti altri possibili sottotesti, non consentono di proporre un paragone effettivo tra la tragedia teatrale e il testo biblico. Basti dire che nella prima le streghe, con il loro iniziale e non richiesto preannuncio, divengono il motivo scatenante di azioni delittuose che avrebbero realizzato, di fatto, parte di quanto predetto; di contro, nella Bibbia, il profeta Elia esprime il giudizio del Signore nei confronti dei colpevoli prospettandone la morte, solo dopo l’assassinio di Nabot  (1 Re 21,17-25). Qui non c’è alcun fato che determina le azioni; è, invece, la parola di Dio che, per mezzo del profeta, smaschera e giudica i comportamenti umani. Con tutto ciò i richiami biblici presenti in Macbeth rendono ugualmente più incisivo il modo in cui l’opera teatrale tratteggia la malvagità insita in ogni sete di potere.

Tra gli echi della Scrittura presenti nella tragedia di Shakespeare ve ne è una attinente agli alberi che camminano. Nella evocazione compiuta dalle streghe (Atto IV Scena I), la terza apparizione, un fanciullo incoronato con un ramo di albero in mano, assicura Macbeth che egli rimarrà invitto fino a quando la grande foresta di Birnam non raggiunga il castello Dunsinane. Il re si sente sicuro: «chi può ordinare all’albero di svellere le proprie radici conficcate nella terra?». Quando, nell’epilogo (Atto V, Scena V), un messaggero disse al re che gli era parso che il bosco cominciasse a camminare, Macbeth gli diede del mentitore; tuttavia si dovette presto ricredere allorché vide avanzare il bosco verso di lui (come si sa, costituito, in realtà, da soldati, ognuno dei quali nascosto dietro un ramo). Quanto era stato assicurato saldo è travolto dal muoversi di realtà prese da tutti come le più radicate nel suolo. In effetti in Macbeth l’apologo di Iotam risuona  piuttosto da lontano. Resta comunque lecito vedere negli alberi che si mettono in marcia l’espressione di un paradosso:  da un lato il potere è indispensabile, dall’altro esso è aperto a ogni sorta di degenerazioni; quando evita il caos nel contempo lo produce.

Piero Stefani

 

326. La Bibbia, Shakespeare e le degenerazioni del potereultima modifica: 2011-02-05T06:00:00+01:00da piero-stefani
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