324. Un nome da rossore

Pensiero n. 324

 

In una sera di maggio del 1915 un poeta vate, rivolgendosi alla folla accalcata in una piazza di Roma, così si esprimeva: «Su la nostra dignità umana, sulla dignità di ognuno, su la fronte di ognuno, su la mia, su la vostra, su quella dei vostri figli, su quella dei non nati, sta la minaccia di un marchio servile. Chiamarsi Italiano sarà nome da rossore …». Con queste, e altre ancor più veementi, parole un «grande» della letteratura italiana, Gabriele d’Annunzio, portava a compimento un esercizio di retorica che fingeva di premere sul governo al fine di prendere una decisione in effetti già assunta: l’ingresso in campo dell’Italia affianco dell’Intesa. Non fu una scelta di cui gloriarsi.

In tutt’altro contesto, oggi si impongono con implacabile attualità, a patto di trascriverle al presente, alcune di quelle parole: «chiamarsi italiano è un nome da rossore». La vera ragione non è quella, pur reale, dell’immagine che si diffonde nel mondo legata agli inqualificabili comportamenti personali del presidente del consiglio. Lì, certo, ci sono ad abundantiam motivi di coprire le proprie guance di rubyno e tuttavia  lo snodo fondamentale si trova altrove. Il vero motivo di vergogna che tutti ci accomuna è che, all’incirca da vent’anni, in Italia non si può fare a meno di riferirsi, in un modo o in un altro, a Berlusconi. Vi è un dato oggettivo: da quasi quattro lustri  il Cavaliere è divenuto il perno su cui ruota l’intera vita nazionale.

Non siamo in una classica dittatura, le gigantografie di Berlusconi  non appaiono agli angoli delle strade o sui palazzi istituzionali, nelle scuole o nei tribunali. Si tratterrebbe di un procedimento arcaico. Il fatto cruciale è che tutto il linguaggio della comunicazione, in modo diretto o indiretto, non riesce a ignorarlo o come persona o come stile di comportamento avversato e/o introiettato. Berlusconi si è impossessato dell’anima del paese. Questo è il vero motivo di incancellabile rossore. Essere all’opposizione politica è un rantolo di dignità, ma non sposta il baricentro della questione. Non ci si può dimenticare di lui. È lui che comanda il gioco. Prima o poi perderà; ma il torneo sarà sempre intitolato a lui anche dopo di lui. Lo sarà fino a quando non ci sarà una vera svolta. Giunti a questo punto, la  rigenerazione dovrà, per forza, passare attraverso una fase traumatica, proprio come avvenne per l’altro ventennio: prospettiva realistica, ma non augurabile, i prezzi da pagare saranno infatti enormi.

Tutto è così. Quando ci si imbatte in forze positive impegnate nel sociale, nella concreta applicazione dei diritti, nell’elaborazione culturale seria, allora sorge, inevitabile, un interrogativo: come è possibile che un paese che ha queste potenzialità abbia una vita e un’immagine pubbliche così degradate? A parti rovesciate, la stessa conclusione va tratta quando ci si imbatte in comportamenti e stili di vita volgari, egoistici, narcisistici e dissipatori pervarsivamente presenti tra noi. In tal caso si è obbligati a constatare quanta terribile omogeneità ci sia tra il «paese reale» e quello legale. Se si contemplano le opere d’arte del passato o si è avvinti dalla grande musica e letteratura dell’Italia di un tempo, ci si chiede come è possibile che una civiltà capace di aver prodotto quelle realtà si sia ridotta così. Se si è di fronte alla liturgia pubblica dei picchetti di onore, delle toghe, delle deposizioni di corone di alloro, delle solenni sedute inaugurali, delle celebrazioni e degli anniversari sorge, inevitabile, un senso di smarrimento constatando la vuotezza di quella ritualità di fronte al vero volto dell’Italia. Su questo declivio si potrebbe continuare, fino a giungere alla minuscola esemplificazione costituita da queste righe, anch’esse prigioniere di quello spettro che si aggira tra noi e dentro di noi.

Il modello «tirannico» (in senso classico) di chi governa la cosa pubblica in base al proprio interesse privato si è capovolto fino a far sì che anche il privato di ciascuno sia  impregnato da un diuturno confronto con  quello stile pubblico. Quando ci si alza la mattina, si è coperti da un rossore contraddistinto da tratti depressivi: non ce ne liberiamo, siamo ancora qui, non riusciamo a coagulare forze per uscirne.

Nell’orizzonte italico vi è un altro rosso, quello cardinalizio. Anch’esso è ormai segno di vergogna. Quando il primo ventennio aveva imboccato la strada dello sfacelo, ci fu qualche sussulto; è il caso degli ultimi mesi di pontificato di Pio XI. Tuttavia neppure allora ci fu una seria messa in discussione dello scoperto appoggio che si era dato in precedenza. Né avvenne alcuna franca ammissione di aver sbagliato. La statura culturale di papa Ratti è imparagonabile a quella di un Bertone, di un Ruini o dell’evanescente Bagnasco. Da lui ci si poteva, forse, aspettare qualcosa, dagli odierni cardinali non è dato attendere nulla e i loro tardivi distinguo non fanno che rendere più intensa la porpora presente sui loro abiti e sulle nostre guance. Semplicemente essi non sono all’altezza di comprendere il dramma del nostro paese in quanto ne sono parzialmente corresponsabili.

Piero Stefani

 

324. Un nome da rossoreultima modifica: 2011-01-22T05:00:00+01:00da piero-stefani
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4 pensieri su “324. Un nome da rossore

  1. Una riflessione amara, ma lucida e si spera efficace. Se pensiamo che molti, negli ultimi mesi, si sono convertiti a ciò che era già chiaro per tutti – chiesa compresa – già 17 anni fa, è scandaloso che non si siano potuti già vedere, molti anni prima, gli inganni, le menzogne, le fragilità, le arroganze, le mancanze di rispetto, compresa la perversione non sessuale, ma nel rapporto con sé. I molti satelliti, che hanno girato intorno a quel soggetto, non ne hanno compreso la pericolosità. E in tal modo, contribuendo al suo successo, ora appaiono patetici nei distinguo. E di tali ominicchi e quaqquaraqquà abbiamo piene le istituzioni (presidenze delle camere, delle commissioni, delle regioni, dei comuni…)
    La profezia di un redde rationem non indolore va bene intesa. Non sarà indolore, ma potrebbe essere anche un cambiamento radicale in cui, purtroppo, nella sostanza non cambia nulla. Speriamo non sia così.
    La Chiesa, per quel che può, sappia cogliere l’occasione per un colpo d’ala. Dopo aver retto la coda per troppo tempo al tiranno, sappia correre il rischio di un tono profetico. QUando il buon senso elementare di un modesto prelato che dice la sua appare come la voce di Giovanni Battista nel deserto, allora, i tempi non son certo facili.
    Grazie a Piero, comunque, per il solito coraggio e la consueta lucidità. Ti dobbiamo molto, se la fiammella resta accesa.

  2. Gentile professore
    Intanto un sentito grazie per le sue parole, sempre notevoli ed acute. Da molto tempo leggo con interessi i suoi interventi. Anche in questo caso concordo totalmente con quanto scrive, tuttavia, il vero problema, mi pare, stia non tanto nella diagnosi del male, quanto nella cura.
    Lei scrive giustamente che ‘non ce ne liberiamo, siamo ancora qui, non riusciamo a coagulare forze per uscirne’
    Ed infatti questo è il punto. Quanti di noi, e siamo molti, da tempo stanno facendo il loro massimo per uscirne, ma il massimo di molti è ancora troppo poco. E dunque? Dunque «la rigenerazione dovrà, per forza, passare attraverso una fase traumatica, proprio come avvenne per l’altro ventennio» ? Non ci è concessa un’altra via? Qual è il ‘trauma’ che Lei si aspetta? Perché, sia detto per esteso, anch’io talvolta mi convinco che non ci sarà uscita da questa situazione senza un trauma (non solo per il Paese, ma anche per la Chiesa), salvo poi scacciare questo lugubre pensiero perché mi fa paura.
    Con stima
    Stefano Zanetta
    Borgomanero – (Novara)

  3. Occorre fare appello a tutta la Fede , alla Speranza e alla propria libertà personale per sentirsi parte di questa Chiesa, imbrigliata da questa gerarchia. Testardamente si difende il diritto-dovere di nutrire diverso pensiero e dare diversa testimonianza, assieme al diritto di continuare a frequentare le nostre chiese, i sacramenti, sentendosi liberi dalle pastoie di chi amministra dall’alto. Tuttavia, nonostante il ricorso alle 2 Virtù Teologali ricordate, lo scoramento è grandissimo, tanto da apparire talvolta insuperabile. Forse l’attuale, per la sua complessità, è uno dei momenti più difficili della storia della Chiesa in Italia.

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