308 – «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli»[1] (03.10.2010)

Il pensiero della settimana n. 308. 

 

Secondo un classico principio ermeneutico un testo parla se lo si fa parlare. In questa operazione si può annidare l’arbitrio; in essa però c’è spazio anche per il dispiegarsi di sensi impliciti che svelano, nel tempo, potenzialità nuove. Ciò  avviene quando si è servitori e non già dominatori del testo. Il procedimento vale anche per il versetto evangelico che orienta il nostro incontro su «Scandali e riconciliazione nelle Chiese»: «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli» (Mt 18,10),

Viene dato per scontato che questi «piccoli» siano «bambini» e che il passo ben si attagli al più vulgato – ma anche doloroso – scandalo che si sta manifestando, in questi ultimi tempi, all’interno della Chiesa cattolica: l’abuso sessuale sui minori. È così? Se guardiamo alle intenzioni più profonde del testo, ma anche alle sue più penetranti ricadute attuali, la risposta deve essere negativa. Va da sé che il testo evangelico non  si riferisce in modo diretto alla pedofilia; il punto, tuttavia, non sta qui; piuttosto bisogna chiedersi se la frase si riferisca davvero in modo diretto ai bambini. Se non è così, chi sono allora i piccoli di cui si parla?

Il brano prende le mosse da una domanda dei discepoli. Essi, avvicinatisi a Gesù, gli chiesero: «Chi è dunque il più grande nel regno dei cieli?». Al che Gesù chiamò a sé un bambino e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). L’invito è volto a convertirsi, a girarsi indietro (verbo strephō ) per diventare «come bambini». Esso perciò riguarda gli adulti. Qui si sta parlando non di fanciulli, ma di grandi chiamati a diventar piccoli: «Perciò chiunque  si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4). Il testo greco ha un’espressione forte, alla lettera suonerebbe «chi si farà tapino» (anzi, con un neologismo, si dovrebbe dire: chi si «tapinizzerà»). Costui sarà grande, ma lo sarà in relazione al regno non già alla terra.

Seguono parole d’imprecazione: «Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali; è inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo» (Mt 18,6-10). Di nuovo: chi sono i piccoli? Una traduzione pedissequa ci aiuta: « ma chi scandalizza uno di questi piccoli i credenti in me». Vale a dire, qui ci si riferisce non a bambini che credono, bensì a piccoli che sono diventati tali perché credono. Si tratta di coloro che sono divenuti «come bambini» a causa del Vangelo. Sono loro che nella Chiesa restano perennemente scandalizzati da chi vive e governa da «più grande». Il  fatto è inevitabile (in greco c’ è  ananchē), ma non per questo il grande si sottrarrà al giudizio. Lo scandalo è la Chiesa che esercita il potere al suo interno, producendo ruoli gerarchici e riproponendo una struttura piramidale e castale; all’esterno, esercitando il proprio influsso sul mondo. Letti in questa luce, si capisce perché gli scandali siano una  necessità. Non si è nell’ambito dell’opportunità o della convenienza, come quando si afferma (forse anche a ragione) che da certi scandali può nascere uno sussulto di coscienza (fermo restando che dall’uso strumentale e ricattatorio di, veri o presunti, scandali la coscienza  ne esce  stravolta). Si parla di necessità perché nella Chiesa – che non è il Regno – vi sarà sempre, per forza di cose, chi è «più grande»; ma è proprio lui a incorrere nel rischio, gravissimo, di essere di scandalo per coloro che, per amore del Vangelo, diventano piccoli.

All’interno delle comunità dei credenti il problema di fondo, ancor prima dell’abuso, è l’uso stesso del potere. Se lo si esercitasse davvero come servizio «il più grande» dovrebbe farsi «il più piccolo»; ma ciò, in modo pieno, è avvenuto solo in Gesù. Ben raramente i suoi discepoli si sono messi su questa via. La domanda chi «sia il più grande» non è soltanto dei primi discepoli; al contrario, essa costella duemila anni di cristianesimo. Qui più che mai i discepoli sono figura delle autorità, le quali, non per un determinato comportamento personale, bensì a motivo della loro stessa  esistenza indicano che, nel loro procedere nella storia, le Chiese sono obbligate a non vivere integralmente secondo il Vangelo (quando ci si illuse di esserne all’altezza, quasi sempre ci si trasformò in setta). Perciò viene loro richiesta una incessante confessione di peccato. Per saperlo non è necessario alcuno scandalo speciale; basta la vita quotidiana contraddistinta da un esercizio del potere che si dà tanto ai vertici quanto alla base. Il fatto che per aprire gli occhi servono gli scandali significa che la patologia è già molto grave. Essere consapevoli della perenne inadeguatezza delle Chiese, non significa cercare facili attenuanti nel dire «siamo tutti peccatori», né comporta sottovalutare le differenze tra i vari comportamenti colpevoli. Anzi, è vero il contrario: quando il potere (sotto qualsiasi forma) diviene funzionale al dominio (sotto qualsiasi forma), lo scandalo patito dai piccoli diviene massimo. In queste circostanze per il grande non resta che farsi piccolo. Ciò può avvenire solo lungo l’itinerario additato da Bonhoeffer (appunto in riferimento a Mt 18,3), ossia  «in forza della penitenza, cioè dell’onestà estrema».[2]

Riconciliazione. Nella sua omelia pronunciata nella cattedrale londinese del Preziosissimo sangue (18 settembre 2010), Benedetto XVI ha affermato: «Esprimo il mio profondo dolore alle vittime innocenti di questi inqualificabili crimini, insieme con la speranza che il potere della grazia di Cristo, il suo sacrificio di riconciliazione, porterà guarigione e pace nelle loro vite». L’annuncio della misericordia di Dio sta al cuore dell’evangelo. Il ricorso alla parola riconciliazione (verbo katallassō, sostantivo katallaghē) è tipico di Paolo (cfr. Rm 5,10.21; 1Cor 7,11; 2 Cor 5,18-20). L’Apostolo parla di una riconciliazione degli uomini con Dio compiuta grazie alla riconciliazione di Dio con gli uomini. La portata fondativa di questo riferimento è innegabile. Eppure non ci si può limitare a questa  imprescindibile «verticalità rovesciata» (dall’alto al basso).

Una delle testimonianze più alte della prassi contemporanea è di aver additato la via di una possibile riconciliazione tra i colpevoli e le loro vittime basata sul diritto alla verità da parte di queste ultime. Per riproporre l’espressione di Bonhoeffer, questa via esige una «onestà estrema». Ciò comporta che le vittime siano riconosciute nella loro dignità di soggetti. Il colpevole deve stare di fronte a loro; per lui quello è il prezzo da pagare per essere, di nuovo, all’altezza della propria dignità umana. Nessuno è delegato a rappresentare la vittima, tanto meno l’autorità. Va da sé che vi sono molte circostanze  in cui questo genere di  riconciliazione non è praticamente possibile. Gli anni trascorsi, non di rado, sono stati troppi. In tali casi si deve avere il coraggio di ammettere che qualcosa mancherà per sempre.

La riconciliazione a cui guardare è anche, e per più versi soprattutto, quella orizzontale  di cui parla  il «Discorso della montagna»: «Se dunque presenti la tua offerta all’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti (verbo diallasomai) con tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24). La dimensione verticale (dal basso all’alto) propria dell’atto di offrire qualcosa a Dio va subordinata alla riconciliazione orizzontale rivolta al proprio prossimo. In questo contesto, secondo la parola di Gesù, si è chiamati a sentirsi responsabili persino dell’ostilità che altri hanno nei nostri confronti. Quanto più sarà, allora, vana l’offerta a Dio compiuta da chi è gravato di colpa rispetto ai più deboli. Intesa nel suo senso proprio, l’offerta di cui parla Matteo non ha nulla a che vedere con quella compiuta del sacerdote cattolico nel corso della messa; tuttavia non pare arbitrario avanzare la suggestione che il passo, oggi, possa applicarsi pure al presbitero celebrante.

Piero Stefani




[1] Riflessione tenuta in  apertura del XVII convegno di teologia della pace, Scandali e riconciliazione nelle Chiese, Ferrara 25 settembre 2010

[2] D. Bonoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 440.

308 – «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli»[1] (03.10.2010)ultima modifica: 2010-10-02T10:12:00+02:00da piero-stefani
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