Il pensiero della settimana, n. 298.
«Cognitio Dei experimentalis». Con tre parola Tommaso d’Aquino nella Summa fornì la più penetrante definizione mai proposta di cosa sia la mistica. È cristallina, ma anche iridescente. A secondo l’angolo d’incidenza, il raggio di luce fa scaturire bagliori diversi. Se si insiste sulla componente legata all’esperienza, allora erompono prepotenti i sentimenti e l’io. Ci si trova perciò di fronte a mistici che si riferiscono a se stessi: pochi tra loro sfuggono al pericolo di parlare non tanto di Dio, quanto del loro modo di averlo incontrato. Il discorso si fa diverso quando l’attenzione batte sulla parola «cognitio». Allora a squadernarsi davanti a noi è soprattutto il paradosso di una conoscenza messa al centro eppure dichiarata nel contempo impossibile. Qui non si tratta di riaffermare, in modo del tutto prevedibile: «mi mancano le parole per dirlo». Né ci si limita a ripetere, fatidicamente, l’infinita dolcezza e il bruciante ardore provato nel proprio animo.
Quando non ci si preoccupa della conoscenza, si è di fronte a un’esperienza ineffabile descritta, in realtà, in termini comuni. Altro è il linguaggio allorché, con Dante, si afferma che visione e intelletto vanno tanto in profondità da eccedere la sfera del ricordo. In tal caso a essere deficitaria è non la «cognitio», ma la capacità di rammemorarla, vale a dire di sperimentarla conservandone traccia dentro l’io. È un «trasumanar», ma per via di un intelletto non paragonabile a quello che ci guida nella vita quotidiana.
«Seconda Intelligenza» è il titolo scelto per una raccolta di abissali aforismi mistici scritti da Arnoldo Mosca Mondadori,[1] giovane discendente del grande editore. L’espressione si confà in maniera perfetta a una scrittura nella quale il termine «io» è in pratica assente. In queste brevi pagine non c’è alcun tentativo di comunicare quanto provato dal proprio animo quando si è accostato al fuoco bruciante dell’amore divino. Né vi sono frasi, quasi fossero detti rivelati in qualche visione, precedute da formule del tipo: «Gesù mi ha detto», «Maria mi ha comunicato», ecc. Sono righe spoglie incise sulla pagina. Ogni loro espansione significherebbe una perdita.
Il loro linguaggio è dominato dall’ossimoro. L’abbandono della logica della non contraddizione è scelta necessaria per dire l’indicibile. Quando ci si limita a esprimere sentimentalmente l’ineffabile, la parola non si sforza di scavare nel paradosso; di contro, allorché si vuole effettivamente comunicare quanto si colloca al di là della esperienza verificabile e ripetibile, l’affermare e il negare sono legati tra loro in modo inestricabile. Il linguaggio è conciso; pieno di immagini e di metafore, ricco degli ossimori di Dio: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio /umile e alta…».
Altezza e profondità sono due scelte alternative per tentare di parlare di Dio. Si può definire Dio, l’ Altissimo. È dato di pensare ai cieli. In tal caso il paradosso – più e più volte attestato dalla Bibbia – è che l’irraggiungibile sia raggiunto, anzi ci raggiunga. In effetti l’inacessibilità divina trova la propria smentita solo nell’abbassarsi di Dio che guarda verso le proprie creature e scende tra esse. Se, invece, si opta per l’immagine del profondo assoluto, allora prevale l’inabissarsi di Dio e in Dio. Con ciò diventa preponderante il ruolo di quanto, nella esperienza umana è più prossimo allo sprofondare: la morte. Come giustamente scritto da Giacomo Canobbio nella sua «Premessa», nelle pagine di Mosca Mondadori il primato spetta al linguaggio abissale e ossimorico. Occorre però porre in rilievo anche quanto oggi si cerca, per lo più, deludere: la componente terribile legata a cadere nelle mani di Dio (Eb 10,31):
«Coraggio di scegliere la Sostanza oscura.
E non vi è solo il tuo terribile magma d’amore
C’è anche il precipizio.
Tu non vuoi solo essere amato
Tu esigi il coraggio verso lo strapiombo…» (p. 21)
«Solo il precipizio. Nient’altro è visibile in Lui…» (p. 27).
Il «trasmunar» è rivolto verso il basso, non è ascesa è inabissarsi: «Dio vuole una carità disumana» (p. 46).
Nel Figlio vita e morte si stringono tanto fortemente da rendere il nodo indissolubile per tutta l’eternità. L’ossimoro si fa supremo per i secoli dei secoli:
«La morte è entrata così profondamente nel tuo corpo che ora vita e morte coincidono nella gloria della tua carne. Si è anch’essa trasformata. Essa è l’ombra della tua luce. Cristo eternamente morto d’amore, eternamente risorto nei fiumi di pace» (p. 43).
La ricerca di Dio diviene, per grazia, nostra ricerca di Dio in Lui e sua in noi, la «Seconda Intelligenza» non è altro che questo: «…È lui che ci disperde perché sa che è in noi l’anelito a tornare nella Beatitudine. Non più come fuoco puro ma anche come Seconda Intelligenza. Egli sa che noi lo cerchiamo anche nel vuoto, nel dolore, nel nulla.
In noi trema a nostra insaputa il Suo desiderio…» (p. 51).
Piero Stefani