271 – Abramo il popolo ebraico e gli altri popoli della terra (seconda parte) (29.11.09)

Il pensiero della settimana, n. 271 

 (seconda parte)[i]

 

 Verso la fine del libro di Giosuè si parla della grande assemblea di Sichem.  L’episodio inizia con un discorso. Ecco le sue parole inziali: «Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume. Essi servivano altri dèi. Io presi Abram, vostro padre, da oltre il Fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan» (Gs 24,2-3). Giosuè, quando comincia a rievocare la storia del proprio popolo, proclama, post eventum, l’azione compiuta dal Signore Dio. Egli parte dal culto riservato agli idoli per passare subito dopo ad Abramo. Nel testo non si  spiega come avvenne l’uscita dall’idolatria; la descrizione è affidata a una componente tutta spaziale: il Signore Dio lo portò dal paese al di là dell’Eufrate a quella che sarebbe diventata la terra d’Israele. In questo transito è implicito il distacco dal culto idolatrico dei propri antenati. Il discorso rivolto da Giosuè al popolo mostra in modo indiretto che se la fuoriuscita dall’idolatria fosse compiuta solo con le proprie forze si correrebbe il rischio di trascinarsi ancora dentro di sé involontarie componenti idolatriche: l’immagine di un Dio raggiunto dalle creature con mezzi propri conserva in se stesso tratti impropriamente umani.

Il capitolo che inizia con la chiamata di Abramo: «Lekh, lekhà (Vattene)…» (Gen 12,1) si colloca in una posizione intermedia tra l’autouscita dall’idolatria e l’azione autonoma del Signore Dio. A dircelo è il semplice fatto di essere incentrato su un  comando: la voce divina chiama, l’azione umana risponde. Al principio della sua vocazione Abramo non parla mai; non una parola esce dalla sua bocca: il suo linguaggio è l’agire. Egli va, cammina, esce. Eppure la chiamata non avvenne a Ur. Se si scorre la fine del capitolo precedente, si legge che Terach con il figlio Abram, la nuora e il nipote Lot era uscito da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Tuttavia nel corso del viaggio «arrivarono fino ad Carran e vi si stabilirono» (Gen 1,31). Il cammino era già stato intrapreso, tuttavia senza la chiamata tutto sarebbe rimasto a metà. L’uomo da solo è in grado di partire, non di giungere alla meta. Resta comunque il fatto che la chiamata di Dio giunta ad Abramo in Carran  indica una specie di debito del patriarca nei confronti di colui – il padre idolatra – da cui è chiamato a separarsi. All’inizio delle storie patriarcali si colloca un simbolo pregnante del distacco delle generazioni: il figlio lascia il padre. Anche per questo la discendenza abramica avverrà attraverso la promessa (Isacco) e non mediante la forza generativa del maschio e della femmina (Ismaele).

Un racconto midrashico parla di una personale peregrinazione di Abramo antecedente alla chiamata. Esso ci dice che Abramo non constatò soltanto il tramonto del sole, della luna e delle stelle, ma, nel suo girare a occhi aperti sulla superficie dell’adamà,  prese pure  atto dello sfascio del mondo. A questo proposito, il midrash propone un paragone con un uomo che, mentre passa per strada, vide un palazzo bruciare senza che nessuno intervenisse. Allora pensò tra sé: sembra proprio che manchi il padrone; «ugualmente, perché il nostro padre Abramo aveva detto: si direbbe che il mondo non ha chi se ne occupi, lo guardò il Santo, Egli sia benedetto, e gli disse: “io sono il Padrone del mondo”» (Bereshit Rabbà, 39,1). Ma di quale mondo? Di quello in cui due solitudini, la divina e l’umana, hanno reciprocamente bisogno di incontrarsi in quanto il palazzo brucia.

La chiamata si inserisce in una triplice situazione. Essa avviene nel corso di un viaggio interrotto e perciò ripiegato sulla stanzialità, mentre è in corso un tentativo autonomo di uscire dall’idolatria e quando, mentre si vaga nel mondo, ci si sta chiedendo dove sia Dio. La voce del Signore si fa udire allorché ci si trova nel mezzo. Per questo avviene a Charran e non a Ur. Si è in una situazione intermedia da cui non è dato di tirarsi fuori soli. È una condizione paragonabile a quella propria dell’inizio della Divina Commedia: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura». Si  constata di essere in una oscurità da cui non si è in grado di uscire, ma nel contempo è anche una prima forma, sia pure labile, di trovare se stessi.

«Vattene dalla tua terra, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre» (Gen 12,1). L’ordine di uscire è scandito dal martellante ripetersi dell’aggettivo possessivo «tuo». Esso è inoltre contraddistinto da una successione capovolta dello spazio fisico. Se si dovesse seguire la logica dello spostamento, la casa si pone come prima tappa e il territorio come ultima. La Genesi vuole dirci che non si tratta di un’erranza legata agli spazi; il peregrinare va infatti piuttosto assunto come condizione. Si è chiamati a rompere legami sempre più ravvicinati: patria, città, famiglia. Ad Abramo è imposto di uscire dal possessivo. In questa luce si può evocare l’interpretazione (ormai abbastanza conosciuta) la quale, giocando su una possibilità linguistica consentita dall’ebraico, intende l’espressione «Lekh lekhà» non già come un imperativo rafforzato, bensì come se si dicesse «va’ a te».  Il comando di Dio è di uscire da se stessi per ritrovarsi. Il nostro vero essere è avanti a noi, lo si può raggiungere solo se si cammina. Per ritrovare se stessi non ci si deve rivolgere a radici identitarie costituite  dalla casa, dalla parentela, dalla patria; al contrario occorre uscire e prestare ascolto a una voce che chiama dall’esterno.

(contiuua)

Piero Stefani




[i] Conversazione tenuta nel corso della «Due giorni teologica:  “La Parola di Dio ci interpella: ‘In te saranno benedette tutte le famiglie della terra’ ”»  Messina, 14 novembre 2009.

271 – Abramo il popolo ebraico e gli altri popoli della terra (seconda parte) (29.11.09)ultima modifica: 2009-11-28T18:12:00+01:00da piero-stefani
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