256 – Bibbia, teologia e fisica (28.06.09)

Il pensiero della settimana n. 256

 

    Periodicamente  si ritorna a parlare dei rapporti tra Bibbia e scienza. Il problema, mille volte dato per risolto, rispunta con la indesiderata tenacia delle erbacce. Ciò avviene perché troppo spesso si tratta di una questione mal posta.

Partiamo da un’asimmetria incontestabile: la natura nulla dice della Bibbia, mentre quest’ultima compie alcune asserzioni sul creato. In questo contesto il problema diventa acuto quando si sovrappongono i due termini di creazione e natura; allora, infatti, diviene pertinente chiedersi se le affermazioni bibliche relative al creato abbiano o meno qualche attinenza con il campo proprio delle indagini naturali. Il rilievo, se ben compreso, mostra di per sé che la questione di fondo si situa nell’ambito dell’ermeneutica biblica: essa sorge o cade a seconda dei modi adottati per leggere la Scrittura; mentre non si affaccerebbe affatto se si partisse solo dal lato delle «dispute naturali» già ampiamente affrontate, per esempio, dall’abiblico pensiero greco.

In realtà, a ben guardarci, il contenzioso, in sostanza, non è mai stato tra Bibbia e scienza. A dimostrarlo è la presenza di una terza disciplina: la teologia. È stato questo ramo del sapere a trasportare in altri linguaggi e a collocare in altri contesti contenuti ricavati sia dalla rivelazione biblica sia dalla riflessione razionale. Esattamente in base a questa duplice articolazione la speculazione metafisico-teologica interagisce tanto con la Scrittura quanto con la natura. Proprio questa interconnessione ha fatto sorgere un nugolo di problemi (o pseudoproblemi) specifici della cultura occidentale di cui né il mondo classico, né quello  biblico avrebbero mai sospettato l’esistenza.

Per citare un esempio fra i tanti, riferiamoci a un breve testo di un  noto fisico e pastore anglicano contemporaneo John Polkinghorne.[1] Egli, in un suo recente articolo, cerca di coniugare tra loro il problema del tempo, l’ordine fisico del mondo, la libertà umana e l’immagine del Dio biblico.[2] Di fronte a questo plesso di problemi quel che preme sottolineare è dichiarare che il contesto in cui sorgono è solo quello teologico. In altri termini, Polkinghorne può discutere simili argomenti non nella sua qualità di scienziato, di filosofo della scienza o di biblista, ma solo in quanto studioso interessato al sapere teologico.  Infatti quelle questioni non sono di casa né in ambito scientifico, né in quello biblico. Solo una riflessione razionale che  vuole confrontarsi tanto con la rivelazione biblica quanto con l’ordine della natura può sollevare (molto più che risolvere) siffatte interrogazioni. In definitiva, l’espressione «teologia e fisica»[3] è coerente e pertinente in quanto relativa a saperi tra loro distinti, ma confrontabili, mentre non lo è la formulazione «Bibbia e fisica». Ovviamente la constatazione apre la domanda su quali siano i rispettivi fondamenti del sapere scientifico e di quello teologico.

Le osservazioni appena compiute non negano, ovviamente, che nella Bibbia si ritrovino delle visioni cosmologiche e che esse abbiano influito, lungo i secoli, all’elaborazione di un sapere che ha come proprio oggetto i fenomeni naturali. Tuttavia la sfera d’azione di quest’ultimo rilievo non è tanto la ricerca scientifica odierna quanto la storia della scienza. Come affermato proprio da Polkinghorne, al giorno d’oggi un fisico può compiere le proprie ricerche prescindendo dalla lettura delle opere di Newton.[4] Ciò non significa misconoscere l’importanza di quell’apporto; al contrario esso è stato così decisivo da far sì che i suoi contributi siano stati tutti inglobati in un processo di crescita di un sapere sempre più ricco. Di contro, osserva ancora Polkinghorne, nessun credente può prescindere dalla convinzione secondo cui la Bibbia è un libro dotato di perenne attualità in quanto custodisce la parola di Dio. Nessuno può perciò dichiararla superata. Tuttavia è fuori discussione che si tratti di un testo antico legato a visioni cosmologiche, antropologiche, sociali, culturali molto distanti dalle nostre.

La ricerca fisica e cosmologica dell’ultimo secolo è basata in maniera determinante sulla luce. Più precisamente essa ritiene che in natura non si riscontri nessuna velocità maggiore di quella della luce. Le dimensioni e l’età del cosmo si stabiliscono in base a questo principio. Se non ci fosse quella velocità sarebbe impossibile prendere gli anni luce come unità di misura e cogliere, attraverso questa via, l’immensa estensione spazio-temporale del cosmo.  Per Newton, invece, la luce si diffondeva in modo istantaneo. Basterebbe quest’unica convinzione per far sì che l’immagine del cosmo da lui proposta sia radicalmente diversa dalla nostra. Per lui non era pensabile alcun big bang. A questo punto applichiamo la forma di ragionamento detta a minori ad maius: se quella newtoniana è una cosmologia non riproponibile nel linguaggio scientifico dei nostri giorni, quanto più lo saranno quelle, mitiche, contenute nella Bibbia in cui il firmamento è una calotta solida che divide le acque di sopra da quelle di sotto? Tentare un confronto  tra esse e la visione cosmologica della fisica contemporanea significherebbe perciò imboccare una strada percorribile solo da qualche fondamentalista poco avvezzo al sapere scientifico e preso nelle spire di un’ermeneutica biblica sclerotizzata.

Un raffronto tra Bibbia e ricerca fisica contemporanea è operazione sprovvista di ogni attendibile base teorica.

Piero Stefani

 




[1] Cfr. J. Polkinghorne, Scienza e fede, Mondadori, Milano 1987; Quark, caos e cristianesimo. Domande a scienza e fede, Claudiana, Torino 1997.

[2] J. Polkinghorne, Ma Dio non è un «orologiaio cieco» in «Vita e Pensiero» 5 (2008),  pp. 104-110.

[3] Cfr. S. Morandini,  Teologia e fisica, Morcelliana , Brescia  2007.

[4] J. Polkinghorne, art. cit.

256 – Bibbia, teologia e fisica (28.06.09)ultima modifica: 2009-06-27T15:35:00+02:00da piero-stefani
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