236 – Lefebvriani: non c’è solo il negazionismo (08.02 09)

Il pensiero della settimana, n. 236

 

Ormai autorevoli presuli sussurrano che la curia romana, rispetto alla cancellazione della scomunica dei quattro vescovi della Fraternità Sacerdotale di S. Pio X, si è comportata con superficialità. Non si tratta solo del negazionista mons. Williamson. Tutta l’operazione è stata condotta con molte incertezze persino sul piano canonistico. Quanto è certo è che si tratta di un atto di misericordia. Parola tra la più alta dell’intero messaggio biblico, qui piegata a un uso improprio. Con tale termine si intende l’unilateralità della decisione. Essa è stata presa da Benedetto XVI senza chiedere alcuna condizione a coloro che hanno avuto il beneficio della revoca.  È stata  una misura gratuita, senza che i seguaci di Lefebvre ammettessero qualche loro mancanza. Dalla loro c’era stata soltanto la richiesta della revoca. Perciò se da un lato essa è apparsa misericordia, dall’altra è suonata come una specie di atto dovuto a motivo del disagio avvertito da chi, reputandosi custode fedele della tradizione, era da altri giudicato scismatico. Ha affermato papa Ratzinger: «Proprio in adempimento di questo servizio all’unità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di Successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro Vescovi ordinati nel 1988 da Mons. Lefebvre senza mandato pontificio. Ho compiuto questo atto di paterna misericordia, perché ripetutamente questi Presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare» (Benedetto XVI). Sofferenza, non pentimento.

 

 Il capo della Fraternità ha stilato una dichiarazione in cui si ringraziava la Madonna per aver già ottenuto due delle tre richieste a lei fatte: la messa in latino di Pio V e la revoca della scomunica; ormai manca solo la terza: giudicare il Vaticano II un vulnus nella tradizione. Quest’ultima condizione potrà essere ottenuta, è ovvio, solo in modo strisciante. Una delle tappe di questa operazione sono stati i modi di attuazione dei due  primi passaggi. Non stupirebbe perciò che si  proponesse ai seguaci di Lefebvre di accogliere il Vaticano II solo quando se ne fosse imposta un’interpretazione  in base alla quale, accanto a esso, può sussistere anche tutto quanto c’era prima. In quest’ottica il modo in cui è stata reintrodotta la messa latina del 1962 diverrebbe paradigmatico per l’intera  ermeneutica conciliare.

 

Incalzato dalle polemiche suscitate dalla presenza di un vescovo negazionista,  Benedetto XVI ha precisato: «Auspico che a questo mio gesto [la revoca della scomunica] faccia seguito il sollecito impegno da parte loro [i quattro vescovi]  di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II». Da ciò si deduce che i vescovi non sono più scomunicati, ma non sono neppure riammessi alla piena comunione. La nota della Segreteria di Stato del 4 febbraio si limita a ribadire questa posizione. I quattro vescovi e il loro gregge si troverebbero perciò in una specie di limbo: dotati di successione apostolica, non più scomunicati, quindi non più scismatici, ma non ancora in comunione. Un tempo si insegnava che la remissione di una colpa si otteneva dimostrando la propria contrizione e manifestando il fermo proponimento di non commetterla più. I lefebrviani, che hanno già ottenuto tanto solo dicendo di soffrire, non si ritengono affatto colpevoli; anzi si sentono  sempre più accreditati  nel ritenere che a errare siano stati gli altri. Il solo loro evidente imbarazzo è il negazionismo di Williamson.

 

 Con ogni evidenza papa e curia ora si affannano a chiedere dopo quanto bisognava esigere prima. Per tener fissa la barra del timone, bastava conformarsi alla linea espressa nel 1988 dalla Ecclesia Dei, il motu proprio che istituiva: «una Commissione, con il compito di collaborare con i Vescovi, con i Dicasteri della Curia Romana e con gli ambienti interessati, allo scopo di facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose finora in vario modo legati alla Fraternità fondata da Mons. Lefebvre, che desiderino rimanere uniti al Successore di Pietro nella Chiesa Cattolica». In quel testo di Giovanni Paolo II era, infatti, anche contenuta una diagnosi di fondo dell’errore della Fraternità. Essa verteva proprio sul termine giudicato pietra angolare dai seguaci di Lefebvre: «tradizione».

 

«La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione, “che – come ha insegnato chiaramente il Concilio Vaticano II – trae origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma certo di verità” (Dei Verbum n. 8).

 

Ma è soprattutto contraddittoria una nozione di Tradizione che si oppone al Magistero universale della Chiesa, di cui è detentore il Vescovo di Roma e il Corpo dei Vescovi. Non si può rimanere fedeli alla Tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona dell’apostolo Pietro, ha affidato il ministero dell’unità nella sua Chiesa»

Una delle condizioni che ha portato all’attuale situazione è stata la debolezza con cui, negli scorsi decenni, si è affermata nella Chiesa cattolica la prima delle due condizioni. In particolare  la presenza di quei tre «sia» nella  Dei Verbum definisce un modo autentico di dirsi Chiesa: la tradizione cresce solo se i credenti studiano la parola, se vi è intelligenza delle cose spirituale e se vi è la predicazione vescovile. Quando si amputa uno dei tre «sia», o anche quando non li fa interagire si assiste a quel che effettivamente è avvenuto: una deriva clericale che ha avvilito il senso alto della tradizione e della comunione ecclesiale e che è divenuta presupposto della decisione odierna.

 

Quanto al negazionismo esso è soltanto l’aberrante punta di un iceberg, oltre che l’unico palese motivo di imbarazzo della Fraternità. La parte al di sopra del pelo dell’acqua non deve far dimenticare che la massa sottostante è, in modo costitutivo, integralmente antigiudaica. Tutti perciò, persino Fallay, posso prendere le distanze dal ghiaccio emerso. Tuttavia il grosso è quanto è sommerso. Del resto basta guardare a molte delle decisioni prese da Benedetto XVI per capire quanta poca capacità di discernimento vi sia in relazione ai temi che si aggrovigliano attorno allo snodo decisivo dell’antigiudaismo cristiano.

Piero Stefani

 

236 – Lefebvriani: non c’è solo il negazionismo (08.02 09)ultima modifica: 2009-02-07T00:00:00+01:00da piero-stefani
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