233 – Il Miserere in Dante e in Manzoni (2) (11.01.09)

Il pensiero della settimana, n. 233

 Il Purgatorio 

 

Dante e Virgilio si sono allontanati dalla schiera dei negligenti. Mentre camminano, un’anima si accorge dell’ombra proiettata dal corpo che, vivo, sta viaggiando nell’aldilà. Lo comunica alle altre. Dante allora si volge indietro e rallenta il passo. Per questo viene rimproverato dal poeta che gli fa da guida; il suo volto si copre allora di rossore:

 

«Dissilo, alquanto del color consperso

che fa l’uom di perdon talvolta degno.»

 (Purgatorio V,20-21).

 

Nel frattempo un’altra schiera di anime avanza lentamente:

«E ’ntanto per la costa di traverso

venivan genti innanzi noi un poco,

cantando ‘Miserere’ a verso a verso.

Quando s’accorser ch’i’ non dava loco

per il mio corpo al trapassar dei raggi,

mutar lor canto in un “oh!” lungo e roco;»

(V, 22-27)

 

All’apparire del corpo di Dante, la schiera che (secondo l’interpretazione più probabile) stava cantando a cori alternati il salmo penitenziale, interrompe la recitazione.  L’inizio del quinto canto del Purgatorio è perciò contraddistinto dallo stupore suscitato dalla corporeità. Nel primo caso esso ha come conseguenza indiretta il fatto che Dante, dopo il rimprovero, manifesta fisicamente la propria contrizione; nel secondo caso porta a sospendere la recita del Miserere. Lo sbalordimento delle anime conduce quindi a prestar attenzione al corpo e a connetterlo alla sfera del pentimento attraverso il rossore del poeta o mediante il Miserere.

La correlazione tra salmi e corporeità, declinata lungo un versante molto più drammatico di quello ora detto, era stata  introdotta per la prima volta nel canto terzo, là dove si parla della morte di Manfredi. Appare una figura non riconosciuta da Dante. Per presentarla si ricorre a una terzina ispirata, in maniera scoperta, alla descrizione biblica di Davide

 

«Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:

biondo era e bello e di gentile aspetto,

ma l’una de’ cigli un colpo avea diviso»

(III,106-109).

 

Il profeta Samuele andò alla ricerca del più piccolo dei figli di Iesse per ungerlo re al posto di Saul. Quando compare, Davide è definito come «rufus, et pulcher aspectu, decoracque facie» (1Sam 16,2). Manfredi, «nipote di Costanza imperatrice»,  rassomiglia nell’aspetto fisico a colui che la tradizione presenta come l’autore dell’intero Salterio. L’associazione con il grande re biblico trova il proprio suggello però anche su un altro piano, là dove si evoca la vicenda personale contraddistinta dalla colpa e dal perdono;

 

«Orribil furon li peccati mei;

ma la bontà infinita ha si gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei»

(III, 121-124).

 

Manfredi,  ferito mortalmente, chiude la propria vita consegnandosi piangente a chi «volentieri perdona». Quella morte richiama di certo Gesù Cristo e la sua croce; infatti  le braccia distese del Figlio consentono, ora, alla infinita bontà di Dio di essere accogliente. Tuttavia in quel venir meno non è improprio scorgere anche un rimando  al re peccatore, autore dei salmi, responsabile di orribili peccati e  massimo cantore del pentimento e del perdono.

Il riconciliarsi con Dio, collocato nell’attimo estremo in cui la vita corporea sta sfuggendo, nella Commedia  è associato a chi  viene ucciso di morte violenta. Il tema, anticipato con Manfredi, domina il canto quinto apertosi alludendo a un interrotto Miserere. La recita del salmo è sospesa a motivo dell’inatteso apparire di un corpo. Nei versi successivi si assiste a un capovolgimento: questa volta è la violenta interruzione della vita corporea a trasformarsi in un implicito, efficacissimo Miserere.

 

«Noi fummo tutti già per forza morti,

e peccatori infino a l’ultim ora;

quivi lume del ciel ne fece accorti,

sì che, pentendo e perdonando, fora

di vita uscimmo a Dio pacificati»

(V, 52-56)

 

La riconciliazione avviene per grazia di Dio non solo in punto di morte, ma anche a causa di quel tipo di morire che avvicina il morto ammazzato al Figlio ucciso sulla croce. Come il «buon ladrone» (cfr. Lc 23, 39-43), anche Jacopo e Benvenuto scoprono che mentre si è uccisi si dischiude lo spazio riservato al pentimento e al perdono.

Jacopo del Cassero, inoltrandosi per zone paludose, tenta di fuggire ai sicari  assoldati da Azzo d’Este. La scelta del percorso si rivelò sbagliata e ciò significò per lui la perdita della vita terrena e l’acquisto di quella eterna.

 

«Ma s’io  fosse fuggito inver’ la Mira,

quando fu’ sovragiunto ad Oräco,

ancor sarei di là dove si spira.

Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco

m’impigliar sì  ch’i’ caddi; e lì vid’io

de le mie vene farsi in terra laco.»

(V, 79-85)

 

Qui vi è  un rossore ben più inteso ed efficace di quello del volto: è quello  costituito dal proprio sangue che scorre per terra. Il secondo è un rosso ancor più salvifico del primo. L’io che vede scorrere a terra il proprio sangue, non è travolto, in virtù di pentimento e di perdono, dallo stesso destino di dissipazione.

Durante la battaglia di Campaldino,  Bonconte  da Montefeltro, «forato ne la gola», fugge insanguinando il piano; mentre sta perdendo vista e parola, chiude  la propria vita in nome di Maria: «e rimase mia carne sola». Vi è una contesa tra un angelo e un diavolo per la sorte dell’anima.  Lo sconfitto demonio deve prendere atto della forza che, presso Dio,  ha la debolezza della condizione mortale:

«Tu te ne porti di costui l’etterno

per una lagrimetta che ’l mi toglie;»

(V, 106-107).

 

Rifacendosi a una visione di «dualismo moderato» presente anche nella Summa, Dante attribuisce alla potenza demoniaca la capacità di intervenire sugli elementi naturali. Scoppia un temporale provocato dal diavolo e il corpo di Bonconte è travolto dalle acque e che lo trascinano fino all’Arno dove scompare per sempre alla vista umana.

 

«Lo corpo mio gelato in su la foce

trovò l’Archian rubesto; e quel mi sospinse

ne l’Arno, e sciolse il mio petto la croce

ch’i fe’ di me quando ’l dolore mi vinse;

voltòmmi per le ripe e per lo fondo,

poi di sua preda mi coperse e cinse.»

(V, 124-128)

 

Il demonio scioglie un corporeo segno cristico, ma per lui è tardi, troppo tardi. Per Bonconte tramutare in croce il proprio corpo morente è un atto ultimo e salvifico di consegna di sé a Dio («ch’i fe’ di me»). Rispetto a quel gesto il peccato è nulla. Il signore del peccato è, perciò, reso impotente dal morire che lui stesso ha introdotto nel mondo (cfr. Sap 2,24). 

In questi giorni, come sempre, ma in modi e con responsabilità nuovi, sono molti, anche inermi, coloro che stanno morendo di morte violenta. Confidare, quando le braccia umane imbracciano le armi,  nelle grandi braccia della bontà infinita significa dire parole di fede, non sottrarsi a responsabilità politiche. La misericordia di Dio è la risposta ultima, non l’unica. Occorre infatti anche affermare che tentare di sanare errori commettendone altri è un’opzione che apre la via a esiti ancor più catastrofici. Più  volte in politica è saggio, anzi necessario, sapersi fermare in tempo e ciò vale per entrambe le parti in conflitto.

 

Piero Stefani

 

233 – Il Miserere in Dante e in Manzoni (2) (11.01.09)ultima modifica: 2009-01-10T00:00:00+01:00da piero-stefani
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