153 – Quel che ci accomuna (08.04.07)

Il pensiero della settimana, n. 153

 

Nel Tagebuch, il  diario di ritorno dal Lager, Liana Millu scrive di aver scoperto di aver paura della morte. Erano passati pochi mesi dalla liberazione e nell’estate del ’45 la sua umanità, che si stava ritrovando, affermava di temere che fra un numero x di anni non ci sarebbe stata più. Aggiungeva poi che in quell’ora le sarebbe toccato passare un «bruttissimo momento». Si trattava della morte vera, quella naturale nel proprio letto. Nel Lager, quando Liana si passava la mano sul corpo per sentire lo scheletro già scoperto e calcolava quanto le mancava per finire, non era così. Allora non vi era spavento, né ribellione; c’era indifferente accettazione, come avviene quando si dà il proprio assenso a qualcosa che ti libera da un impiccio.

Vivere umanamente la morte comporta temerla. Esige di trovarsi nelle condizioni di domandarsi cosa significa non sussistere più nell’unica forma di esistenza che, finora, ci è dato di conoscere. Quando le circostanze impediscono di porci gli interrogativi su un’eventuale presenza di una vita dopo la morte non ci si trova più in una condizione umana. Disumano non è rispondere che dopo non ci sarà nulla perché quando c’è la morte non ci siamo noi, e viceversa. Quel che stravolge l’umano è essere costretti a sopravvivere in situazioni in cui il cessare di esistere equivale semplicemente a liberarsi di un impiccio. È la realtà di tutti i Lager, reali o metaforici che siano. Ve ne sono tanti, ve ne sono ovunque. Troppo spesso si ha l’impressione che gli accaniti difensori della vita biologica «dal suo concepimento alla sua fine naturale [sic!]» non si vogliano rendere conto che le massime offese alla vita umana si trovano proprio in questi meccanismi inventati dagli uomini contro i loro simili.

Parlando molti anni dopo, quando il gomitolo della sua esistenza era già quasi tutto srotolato, Liana Millu dichiarò di aver ben presente la domanda riguardo a cosa ne sarebbe stato di lei quando il suo corpo fosse giaciuto sotto la terra. Lei, entrata nel Lager atea e uscitane agnostica, aggiungeva allora che se «il mistero c’è, io lo conoscerò». Si è di fronte a un tipico ragionamento ipotetico: «se… allora». Se cade la premessa cede anche la conclusione. Se il mistero non c’è non si saprà mai neppure della sua inesistenza: quando c’è la morte non ci siamo noi. Il senso del mistero sta tutto nella domanda, non nella risposta. «Dopo» o il nodo viene sciolto, oppure, semplicemente, non si sarà più nelle condizioni di sapere che vi è un groppo da slegare. La fratellanza umana di fronte alla morte sta nel mistero dell’interrogazione. Nessuno, quindi, dovrebbe sbandierare come evidenze contrapposte che dopo ci sarà o non ci sarà nulla; tutti dovrebbero, invece, sentirsi prossimi nella domanda e affettuosamente comprensivi nei tentativi di risposta elaborati dalla nostra mente o accolti dal nostro cuore.

Non è raro udire parlare di «mistero della morte»; si comprende cosa l’espressione significhi, non sono però parole precise. La morte in sé non ha nulla di inconsueto o misterioso. Anzi, è, senza eccezioni,  legge  che regola l’esistenza di tutti i viventi. Detta da questo punto di vista, la fine è davvero naturale. Innaturale è piuttosto la lotta, prima o poi destinata a fallire, per prolungare a ogni costo l’esistenza. La battaglia per vivere, senza distruggere troppe altre esistenze, nasce dalla paura della morte, per questo è umana. In ogni caso rimane il fatto che il mistero non sta nella morte ma nel nostro interrogarci su di essa. In definitiva, quanto è chiamato ad affratellarci è il senso del mistero. Quanto ci accomuna è, da un lato, il poter testimoniare solo come speranza, e non come evidenza, la fede in una vita dopo la morte e,  dall’altro, il rifiuto di trasformare in assoluto la propria convinzione che, cessato il respiro e arrestatosi il battito cardiaco, semplicemente non saremo più. Il dogmatismo è tentazione, ma non è esito fatale né per il credente, né per l’ateo.

Nel IV Vangelo la prima attestazione nella fede nella resurrezione di Gesù è descritta in una scena movimentata. Maria di Magdala si reca al sepolcro al mattino presto, quando è ancora buio e vede la pietra ribaltata. Da ciò deduce semplicemente che qualcuno ha sottratto il corpo del Signore. Corre da Simon Pietro e dall’«altro discepolo» per annunciare loro una scomparsa, non la vittoria sulla morte. I due corrono. Arriva per primo il discepolo amato; scorge dalla soglia le bende per terra ma non entra.  Attende Pietro, il quale, entrato nel sepolcro, vide per terra le bende e il sudario ripiegato. Allora entra anche l’altro discepolo «e vide e credette» (Gv 20,1-10). L’episodio è ricco si molti significati (alcuni dei quali giocati in modo antitetico rispetto alla resurrezione di Lazzaro cfr. Gv 11,38-44); qui, però, ne vogliamo cogliere solo uno. Il discepolo amato crede non di fronte a un’apparizione, ma davanti a delle pure tracce. La presenza delle bende e del sudario potrebbero essere, con fondamento, spiegata anche in altro modo. Soprattutto, però, crede fino in fondo non quando è sulla soglia ad attendere Simon Pietro, ma solo dentro il sepolcro.

Unicamente quando è entrato nella tomba crede alla resurrezione di colui che è uscito dal sepolcro. Fino a quando in loro c’è respiro, i credenti hanno soltanto delle tracce  dell’esistenza di un vita oltre la morte. Sono sulla soglia e attendono. Soltanto quando entrano nel sepolcro il loro vedere si fa davvero fede. È unicamente in «quel bruttissimo momento» che il discepolo diviene davvero credente. Ogni domenica si ripete «aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». La fede è ancora attesa. Si è sulla soglia di una tomba in cui la mancanza del corpo può essere spiegata in più modi. La fede diverrà piena solo quando, in prima persona, si entrerà nel sepolcro. Si può credere che il mistero ci sia, si può attendere che si sveli, ma lo si conoscerà solo quando il Risorto ci farà risorgere. Prima, anche per il credente, c’è soltanto un correre e un attendere.

Piero Stefani

 

 

153 – Quel che ci accomuna (08.04.07)ultima modifica: 2007-04-07T11:50:00+02:00da piero-stefani
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