152 – Salire a Gerusalemme (01.04.07)

Il pensiero della settimana, n. 152

 

La città posta sul monte  accoglie chi viene a lei. Antiche profezie la indicano come la meta finale del pellegrinaggio dei popoli. Le genti diranno l’una all’altra: saliamo al monte del Signore. Allora le spade si muteranno in vomeri e le spade in falci (Is 2,3-4; Mic 4, 2-3). Molti esseri umani, ieri come oggi, scelgono di coltivare la speranza. Il loro cuore non si rassegna né alla condizione presente, né al fatto che per individui e popoli sia raro e arduo comprendersi, aiutarsi, stringere legami saldi capaci di reggere all’usura del tempo. In ogni convivenza, grande o piccola, quanto inizia con entusiasmo troppo spesso si logora sottoposto alla lima dei giorni. Sorgono allora l’insofferenza, la sopportazione, il fastidio, l’incomprensione. Dal loro lento accumulo può erompere la violenza, la devastazione, la distruzione. L’età messianica è il simbolo più alto della speranza stando alla quale il destino ultimo degli esseri umani è lo shalom non la guerra.

Tutto ciò da millenni è dicibile solo al futuro. Tutti coloro che sono effettivamente saliti a Gerusalemme non sono stati benedetti da uno shalom privo di tramonto. Gesù è accolto da un grido che dal basso chiede che si via pace anche in alto: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (Lc 19.38; cfr. Sal 118,26). La pace è chiamata a regnare ovunque: «Colui che nei luoghi alti stabilisce la pace, nella sua misericordia stabilisca la pace sopra di noi e sopra Israele» (Qaddish). Pochi giorni dopo Gesù è inchiodato sulla croce. Del resto, da quando rese duro il proprio volto e decise di dirigersi verso la città (Lc 9,51; Is 50,6), Gesù sapeva che là sarebbe morto. Sul monte posto fuori dalle mura doveva completare la propria missione e la propria vita. Il ‘dopo’, anche per lui, era nelle mani di Dio. Secondo Luca, Gesù in croce muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46; cfr. Sal 31, 6). È un affidarsi creaturale. Le mani che, all’origine, hanno plasmato l’essere umano, sono chiamate, oggi, ad accoglierlo al di là della morte. Quando Gesù rivolge al ‘buon ladrone’ la parola della fede: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43), si propone di nuovo come creatura. La sua sorte è quella comune ai giusti e ai pentiti accolti nel Giardino (paradiso). Le sue parole sono anche rifiuto di rispondere alla domanda di quando giungerà il regno. Il ladrone gli aveva infatti chiesto altro: «ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). In Luca non c’è il grido della disperazione, non c’è il «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (Mt  27,46; Mc 15,34; Sal 22,2). Resta però intatta la creaturalità di quella morte.

   Una foto ingiallita dell’immediato primo dopoguerra descrive una salita a Gerusalemme. Vi si scorge una fila lunga e ordinata di persone. Tutto lascia credere che essa prosegua ancora, al di là dei margini della fotografia. L’ambiente è polveroso. Lo sfondo è costituito per lo più da capannoni e modeste abitazioni. Si vedono una torre e un campanile. È un pellegrinaggio? È una via crucis? Sì, è una via crucis; i passi non sono però volti a ricordare in modo diretto la salita di Gesù al Calvario. Coloro che erano in cammino avevano già vissuto la croce. L’interminabile sequenza è composta dagli orfani del Metz Yeghérn  (il Grande Male). I loro genitori furono vittime del genocidio armeno. Sono tutti bimbi che giungono appena alle spalle dell’uomo in giacca bianca che li guida. Da tempo immemorabile Gerusalemme vecchia è divisa in quattro quartieri: l’ebraico, l’arabo, il cristiano, l’armeno. La salita dei popoli pacificati si è trasformata in luogo di accoglienza di orfani. Povere case sono diventate modesti ripari.

Da allora sono trascorsi quasi novant’anni e la città, mutatissima, conserva in sé  i segni di un altro genocidio. Nella sua urbanistica si staglia lo Jad wa-Shem, il memoriale della Shoah. Ci sono circostanze nelle quali Gerusalemme non può neppure accogliere orfani: deve limitarsi a ricordare i morti. I bimbi sterminati dai nazisti furono un milione e mezzo.

Il declivio del monte degli Ulivi è un immenso cimitero, legato, per le tradizioni che discendono da Abramo, in modo del tutto particolare alla resurrezione dei morti. Nel tempo avvenire la città posta sul monte sarà chiamata ad accogliere i poveri dell’esistenza e della storia. Nessuno è più orfano di loro. La lunga fila di bimbi armeni è figura messianica; è simbolo di coloro che salgono a Gerusalemme avendo, alle proprie spalle, le catastrofi della storia. È un messianismo povero e per questo infinitamente più vero di quello violentemente sognato dai crociati e dai fondamentalisti di tutti i tempi e di tutte le fedi.

Piero Stefani

                                               Gerusalemme 2.jpg

152 – Salire a Gerusalemme (01.04.07)ultima modifica: 2007-03-31T11:55:00+02:00da piero-stefani
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