96 – Un supplemento di rivelazione (22.01.06)

Il pensiero della settimana n. 96

 

 Dal 1990 in Italia ogni 17 gennaio, per iniziativa della CEI, si celebra la giornata dedicata «all’approfondimento delle relazioni della Chiesa cattolica con il popolo ebraico e allo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano». Non vogliamo avanzare bilanci. Meglio guardare in avanti a una scelta rivelatrice: per dieci anni  la giornata passerà in rassegna, l’uno dopo l’altro, i dieci comandamenti. Dal punto di vista pratico ciò  risolverà l’incertezza di sapere per tempo il tema. Tuttavia il vantaggio ricavato dall’essere esonerati da affannose ricerche non compensa l’inquietudine legata a una scelta di tanto lungo periodo.

Proposto da parte cattolica (nella fattispecie da Mons. Paglia vescovo di Terni e delegato CEI per l’ecumenismo e il dialogo) e sottoscritto dalla componente ebraica, l’investimento decennale sul Decalogo presuppone una triplice, concatenata  convinzione: a) le dieci parole rappresentano il culmine della Bibbia ebraica e quindi dell’Antico Testamento cristiano; b) esse costituiscono il più ampio e saldo patrimonio comune tra ebrei e cristiani; c) i dieci comandamenti sono la testimonianza più concorde e qualificante che ebrei e cristiani possono rivolgere al mondo; solo essi, infatti, possono appoggiarsi a un comune «supplemento di rivelazione»  atto a garantire i valori universali contenuti in quelle parole.

L’interpretazione qui proposta trova molti punti di appoggio nelle prese di posizione degli ultimi due papi. Benedetto XVI, nel suo discorso alla sinagoga di Colonia, è stato, in proposito, chiarissimo: «Il Decalogo (cfr. Es 20; Dt 5) è per noi patrimonio e impegno comune. I dieci comandamenti non sono un peso, ma l’indicazione di un cammino verso una vita riuscita. Lo sono, in particolare, per i giovani… Il mio augurio è che essi sappiano riconoscere nel Decalogo questo nostro fondamento comune, lampada per i loro passi, luce per il loro cammino (cfr. Sal 119,105)». Alle spalle di queste parole vi è il convincimento cristiano che il Decalogo sia la parte dell’Antico Testamento che non tramonta in quanto istrinsecamente dotata di un contenuto morale universale.  Affermazione coerente in un quadro che  attribuiva al popolo ebraico un miope attaccamento letterale (o carnale) alla totalità dei precetti, ma incongrua con la convinzione, attualmente fatta propria in modo ufficiale dalla Chiesa cattolica, stando alla quale l’alleanza tra Dio e il popolo d’Israele non è mai stata revocata. Questo convincimento dovrebbe infatti comportare due conseguenze: primo la rivelazione ebraica – vale a dire la Torà – non si riduce ai dieci comandamenti e, secondo, la risonanza universale di cui sono dotate le parole rivelate sul Sinai è tale solo in virtù del loro accoglimento da parte del popolo d’Israele. In altre parole, nell’orizzonte della rivelazione biblica non c’è spazio per quanto si è soliti chiamare «valori comuni». Vi sono piuttosto precetti fondati su un’alleanza che conosce al suo interno una distinzione tra Israele e Genti (vale a dire tra ebrei e altri popoli). Il Nuovo Testamento presuppone ancora questo stesso discorso. La novità del suo messaggio sta nell’affermare  che pure i gentili, attraverso la loro fede in Gesù Cristo, possono aver parte a quella rivelazione. Ciò non comporta l’annullamento della primogenitura e della specificità d’Israele. Un gentile credente in Gesù Cristo ascolta la voce del  Sinai solo grazie alla mediazione ebraica. Le dieci parole sono accomunanti ma non sono comuni.

A dirlo è proprio il primo comandamento così come suona nella tradizione ebraica. Esso si limita a questa sola riga: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra di Egitto dalla casa degli schiavi» (Es 20, 2). Non si aggiunge altro perché qui c’è il fondamento di tutto senza che si evochi alcun valore universale. L’autopresentazione del Signore annuncia una vicenda particolare di liberazione che prende le mosse dall’ascolto del grido che sale dall’oppressione (Es 2,23-25). Per questo il Signore diviene liberatore e quindi può, dopo, chiedere a coloro che sono usciti dall’Egitto di accettare liberamente sia l’alleanza sia gli impegni che conseguono da questo accoglimento. La testimonianza ebraica sta in ciò: Dio può essere legislatore solo se è liberatore. I credenti in Gesù Cristo devono testimoniare questa stessa fede tenendosi saldi al modo in cui essa è stata vissuta da Gesù, fondata dalla sua morte e resurrezione e annunciata dal Vangelo. I valori comuni, se sono davvero tali, non hanno bisogno di essere né testimoniati, né annunciati, né garantiti da un sovrappiù di rivelazione: è sufficiente praticarli sul piano di parità con tutti gli altri esseri umani. Il messaggio biblico, se ascoltato, è arma potente per scardinare ogni nostalgia o auspicio di religione civile.

Piero Stefani

96 – Un supplemento di rivelazione (22.01.06)ultima modifica: 2006-01-21T16:40:00+01:00da piero-stefani
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