87 – La consolazione di Giobbe (20.11.05)

Il pensiero della settimana, n. 87 

 È quasi inevitabile sentir ripetere che lo scopo del libro di Giobbe sarebbe quello di far saltare la logica retributiva, vale a dire la posizione in base alla quale il sofferente è tale a motivo delle colpe da lui commesse. Se tutto si risolvesse in ciò il panorama sarebbe piatto. Il fatto che il dolore non sia imputabile in modo meccanico ai peccati commessi è solo una premessa parziale e non già il messaggio di questo libro biblico. Rifiutare l’aberrante ragionamento «soffri dunque sei colpevole» dice ben poco sul perché il dolore sia una realtà familiare a ogni vivente. Strappare un rovo non equivale a dissodare l’intero campo. Anzi, aver bruciato l’ignobile intrico di spine di una visione banalmente retributiva non fa che rendere più evidenti le argillose crepe del perché nel mondo vi sia tanto dolore.

La Bibbia è un arcipelago composto da molte isole: alcune sono estese, altre  poco più che scogli, qualche costa è brulla e selvatica, qualche altra gentile e fiorita. Trovare un unico, definitivo percorso è rotta preclusa al navigatore di quei mari. Pure in relazione al dolore le risposte sono molte. Nessuna di esse merita di essere cancellata; tenerle assieme esige però compiere perigliose spole su acque spesso agitate. La Scrittura asserisce molte prospettive; afferma che il soffrire e il venir meno della vita sono realtà semplicemente date e comuni a ogni vivente (Qohelet), non nega una connessione tra colpa originaria e patire (Genesi), prospetta la possibilità che si possa assumere  e riscattare il dolore altrui (il «Servo sofferente» del rotolo di Isaia), parla della protesta coram Deo del giusto colpito dalla sventura (Giobbe), narra di profeti che guariscono dalla malattia e ridanno vita a giovani presi nella spire della morte (Elia, Eliseo e, sopra ogni altro, Gesù). Si potrebbe continuare. Ognuna di queste modalità ha voce in capitolo.

Un’immagine di Girolamo paragona il libro di Giobbe a un’anguilla: quando lo si afferra da una parte sguscia da quell’altra. Ogni volta però ci si convince, alla fin fine, di aver afferrato il bandolo della matassa. Forse in un’altra occasione lo si prenderà da un altro capo, comunque  per un po’ di tempo si resta convinti di avere in mano l’accesso più efficace. Non sembra sbagliato individuare il cuore di queste pagine nel robusto contenzioso che il giusto e sofferente Giobbe apre davanti a Dio a motivo del proprio dolore. In Giobbe una fedeltà messa alla prova fornisce, nell’ordine, due risposte: prima accetta e poi protesta. La pazienza, un tempo proverbiale, di questo personaggio sta nel dichiarare: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1,20); il nerbo della lunga protesta si trova invece nel chiedere a Dio il perché si debba soffrire. Per comprendere l’oscillazione va tenuto presente che il dolore innocente appare un’anomalia solo là dove si considera meritato il dolore colpevole. Visti in quest’ottica Giobbe e i suoi amici rischiano di parlare una lingua troppo simile. Gli accusatori sostengono: «se soffri avrai pur combinato qualcosa»; di contro Giobbe articola in modo profondo e poetico il prosaico interrogativo: «perché queste cose capitano proprio a me che non ho fatto nulla di male?». La frase presuppone un sottinteso: se avessi commesso delle colpe la mia sofferenza sarebbe meritata. Per questo la dichiarazione non libera dal sospetto che nessuno possa presentarsi davvero esente dal peccato. Misurare l’innocenza soltanto sulla propria pelle è tentazione subdola. La zuffa tra i due opposti ha luogo perché entrambi scendono in campo nella stessa arena.

La grandezza del libro di Giobbe non è l’uscire dalla logica retributiva, al contrario il suo merito sta nel trarre  da ciò le conseguenze più esigenti: l’unico che può armonizzare il corso del mondo con il comportamento del giusto è Dio (Shaddaj, il Potente), perciò, quando un lancinante stridore si innalza dagli accadimenti, il Signore va tirato direttamente in causa.  Il punto più alto toccato da Giobbe è aver aperto un contenzioso (in ebraico si potrebbe dire riv) con Dio, vale a dire averlo fatto scendere direttamente in campo senza nascondersi dietro la fragile paratia delle «cause seconde». Quanto importa non è conseguire la vittoria (chi può sconfiggere il Potente?), ma essere legittimato nella  protesta. Che Dio quando appare faccia ammutolire la sua creatura (Gb 40,3) ha un peso relativo, la svolta decisiva sta nel fatto che il Signore si manifesta. Il libro di Giobbe non propone alcuna teodicea proprio perché sfocia in una teofania.

Per intendere il testo una chiave ermeneutica decisiva sta nel modo di interpretare le ultime parole messe in bocca a Giobbe.  Di solito sono rese in questo modo: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42,5-6). Per una singolare ambivalenza consentita dall’ebraico la radice verbale (nchm) che esprime pentimento significa anche consolare. Si può perciò tradurre il verso pure in questa maniera: «mi ricredo e su polvere e cenere sono consolato». Giobbe è esattamente al punto di partenza, è tuttora sulla cenere (Gb 2,8), è tuttora attanagliato dalla mortalità (polvere, cfr.  Gen  3,19; Qo 3,20; 12,7) eppure anche lì trova consolazione se è ascoltato nella sua protesta. Si potrebbe, forse, andare oltre e sostenere che l’oggetto del ricredersi è non l’essersi spinto troppo in là nella  contesa ma il fatto di aver compreso che, anche stando sul letamaio, si può trovare consolazione se Dio  ascolta e si manifesta.

Questo esito non fa che moltiplicare i nostri interrogativi: cosa avviene quando sembra che Dio non ascolti e non si manifesti? Una prima risposta laica e vera  sta nel fatto che vicino al sofferente vi sia un’altra persona capace di autentico ascolto. Qui in un certo senso l’uomo può davvero sostituire non empiamente Dio. Per farlo però deve legittimare il lamento e non già tentare di confutarlo al modo degli amici di Giobbe. Tuttavia neppure questo basta, perché molte, svariate e sempre più numerose nell’età della tecnica sono le situazione in cui la persona sofferente non riesce neppure ad articolare il proprio lamento. In queste circostanze tutto è allora affidato al muto grido di un corpo in preda al dolore o al disfacimento. Per noi il pianto di un neonato vittima di una grave malattia è voce più inquietante di quella di Giobbe il quale ha trovato legittimazione e potenziale consolazione nel semplice fatto di aver dato voce e parola al proprio lamento. Oggi però è frequente che anche all’estremo opposto dell’arco della vita si sia privati di parole. Nell’era dell’accanimento terapeutico è sempre più difficile essere nelle condizioni di poter affermare: tra lenzuola e flebo sono consolato. Forse anche in questo senso vanno interpretate le ultime parole pronunciate da Giovanni Paolo II, ora rese ufficialmente note: «Lasciatemi andare alla casa del Padre». A differenza di Gesù, il papa non si congeda dall’esistenza rivolgendosi direttamente a Dio Padre (Lc 23,46). Egli supplica gli astanti di smettere di insistere in una vana lotta. Nei nostri giorni anche la voce di Giobbe si è fatta più flebile e indiretta.

 Piero Stefani

87 – La consolazione di Giobbe (20.11.05)ultima modifica: 2005-11-19T08:30:00+01:00da piero-stefani
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