Un funerale romano (08.03.03)

Il taccuino di Piero Stefani 

 

Una ventina di giorni dopo essere stata gremita da una folla immensa che manifestava per la pace, piazza San Giovanni a Roma si è riempita di nuovo di una massa di persone  meno numerosa ma ugualmente imponente. Nel primo caso la gente veniva da tutta Italia, nel secondo era costituita, per la quasi totalità, di romani. Gli abitanti della capitale nello spazio antistante la loro cattedrale assistevano al funerale di un famosissimo concittadino. Per leggere un evento che, per la sua spettacolarità celebrativa, ha attratto l’attenzione di molti, bisogna infatti tener conto del suo carattere romanesco.

La piazza che si congedava dall’ “Albertone nazionale” non lo considerava davvero tale, se ne stava riappropriando all’insegna di una  romanità ormai fattasi, anche in virtù di Sordi, del cinema e degli stadi, pienamente  omogenea a modalità espressive comuni a tutti. Senza la ormai lunga consuetudine degli striscioni e delle coreografie calcistiche i funerali non si sarebbero svolti in quel modo. Omologazione e localismi si toccano, proprio come avviene per i tifosi delle squadre di calcio che si comportano ovunque allo stesso modo al fine di esaltare la loro appartenenza particolare. Né si va lontani dal vero pensando che in quella piazza i tifosi romanisti si trovassero più a loro agio dei laziali, sui quali pesava la discriminante, non lieve, di non condividere la fede romanista di Alberto Sordi, tratto, non a caso, evocato da molti di coloro che  hanno fatto lunghe ore di coda per vederlo nella camera ardente in Capidoglio.

La romanità della celebrazione va però colta anche nel confronto tra l’esterno della piazza e l’interno della chiesa di San Giovanni in Laterano. La scelta di non svolgere il funerale nella “chiesa degli artisti” in piazza del Popolo, può essere stata giustificata dalla pura necessità di trovare uno spazio più grande per contenere la folla. Tuttavia essa ha comportato la conseguenza  di situare la cerimonia all’interno della cattedrale di Roma. A differenza di quanto si è detto, il rito funebre è stato presieduto dal card. Ruini nella sua qualità non di presidente della CEI, bensì di vicario del papa per la diocesi di Roma. Da un punto di vista liturgico si è trattato di una celebrazione della chiesa locale.

Il confronto tra interno e esterno della cattedrale è un bell’emblema dei nostri tempi. Dentro, il rito si svolgeva secondo la rubrica liturgica che si misura con la serietà della morte e afferma la speranza cristiana nella vita ultraterrena di  una persona che, con il battesimo, è stata associata alla morte e alla resurrezione di Cristo. Fuori si celebrava un simbolo e un’icona di un’appartenenza locale riconosciuta a livello internazionale. Pur essendo ovvie le diversità nelle modalità espressive – in quella sede non erano immaginabili caroselli automobilistici – le dinamiche psicologiche in gioco avevano più di un’affinità con quelle destinate ad esaltare un’ipotetica vittoria della Roma di Totti in Champions League.

Resta ovvio che, guardando il “contenitore” nel suo complesso, l’esterno ha fagocitato dentro di sé l’interno. Lo ha fatto non come un avversario sconfigge un nemico, ma come un erede subentra a chi l’ha preceduto. La liturgia  era costretta a fare le esequie di un uomo, ma per tutti, anche dentro la chiesa, Sordi era innanzitutto un attore cinematografico il quale, rispetto a quella sua collocazione, aveva già da tempo conquistato l’immortalità e l’eterna giovinezza dei film degli anni cinquanta. I simboli, le icone, le maschere  prima rappresentano quel che siamo, poi quel che eravamo e poi quel che erano i nostri antenati e quel che di loro rimane in noi, ma difficilmente muoiono e in ogni caso anche quando lo fanno per loro non sono previste esequie.

Una conclusione è d’obbligo: la Roma di Sordi non è più quella sarcastica e amara di Giuseppe Gioachino Belli in cui un caffettiere filosofo ragionava sull’esistenza umana guardando i grani di caffè che si urtavano l’un l’altro per  finire tutti, chi prima chi dopo, negli ingranaggi che li riducono il polvere: «E l’ommini accusì viveno ar monno / misticati pe mano de la sorte / che se li gira tutti in tonno in tonno; / e movennose ognuno, o piano, o forte, / senza capillo mai caleno a fonno / pe cascà ne la gola de la morte».

Un funerale romano (08.03.03)ultima modifica: 2003-12-25T12:30:00+01:00da piero-stefani
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