In piazza a Roma (22.02.03)

Il taccuino di Piero Stefani

 

In una sera di maggio  del 1915 un poeta vate rivolgendosi alla folla accalcata in una piazza di Roma così si esprimeva: «Se è considerato come crimine  incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai risoluti non esiterei: né mi parrebbe di avere rimordimento. Ogni eccesso della forza è lecito, se vale a impedire che la Patria si perda […] Su la nostra dignità umana, sulla dignità di ognuno, su la fronte di ognuno, su la mia, su la vostra, su quella dei vostri figli, su quella dei non nati, sta la minaccia di un marchio servile. Chiamarsi Italiano sarà nome da rossore […]». Con queste e altre ancor più veementi parole un «grande» delle letteratura italiana, Gabriele d’Annunzio, portava a compimento un esercizio di retorica che fingeva di premere sul governo al fine di prendere una decisione in effetti già assunta: l’ingresso dell’Italia in campo affianco dell’Intesa. Fu l’inizio della guerra più sanguinosa combattuta dall’Italia.

Venticinque anni dopo  ai primi di giugno una folla oceanica si radunò a Roma sotto il balcone di Palazzo Venezia e ascoltò, osannante, le parole del Duce che comunicava di aver consegnato la dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Francia e Inghilterra. Mussolini aveva preso quella decisione  da pochissimo tempo al fine di gettare qualche migliaio di morti italiani sul tavolo della pace creduto prossimo. La gente, manipolata, gridò entusiasta il proprio assenso. Fu l’inizio della massima catastrofe della storia italiana.

Il desiderio di guerra allora riempiva le piazze. Albert Einstein, rivolgendosi nel 1933 al più abissale analista del mondo psichico, Sigmund Freud, gli chiedeva come fosse possibile che un manipolo di potenti convincesse le moltitudini sull’opportunità di fare la guerra. Di fronte a questa semplice domanda, queste somme intelligenze, dopo  aver preso in esame altre ipotesi, non trovarono, alla fin fine, altra risposta che appellarsi a una inestirpabile componente aggressiva presente nelle profondità ancestrali dell’animo umano.

Nel febbraio del 2003 una folla immensa e multicolore si è raccolta a Roma in una piazza S. Giovanni incapace di contenerla. Essa esprimeva il proprio desiderio di pace. Bandiere e musiche, fantasiosi cartelli e creatività ludica, maschere e slogan sono le risorse «carnascialesche» (termine «tecnico», non ironico) che contraddistinguono queste manifestazioni per la pace ormai diffuse in tutto il mondo occidentale (sfera di cui Russia e Giappone sono ormai parti costitutive).Oggi non la guerra, ma la pace convoca le moltitudini.

L’animo della gente si è dunque liberato da quel grumo di Morte (Thanatos) abbarbicato nelle profondità della psiche? Le nostre società e la quotidiana violenza che le pervade sono smentite inconfutabili di questa ottimistica valutazione. Non è avvenuta nessuna palingenesi psichica. Un giorno qualcuno riuscirà a tracciare una storia di queste vicende. Allora probabilmente si vedrà che la svolta ebbe luogo alla  fine degli anni Sessanta, epoca contraddistinta dalla contestazione giovanile e dalle grandi campagne contro la guerra del Vietnam. È lì che va rintracciato l’inizio di quel «pacifismo erotico» (il termine Eros va assunto anche qui in senso tecnico) che ora invade le piazze di tutto il mondo. Nessuno grida più lo slogan principe di allora «fate l’amore e non la guerra» (versione popolare della rilettura freudiana compiuta da Herbert Marcuse); le  dinamiche pulsionali restano però  le stesse.

Sul fronte di Thanatos, quello scorcio d’anni è cruciale per individuare le dinamiche che hanno portato all’insorgere del terrorismo contemporaneo. Estesi a livello globale questi sono ancora due dei nostri massimi problemi: l’affermarsi del pacifismo e la presenza della minaccia terroristica. La  prevalenza della componente «erotica» nel movimento per la pace rischia, a volte, di non cogliere appieno la presenza in se stessi e negli altri  di componenti aggressive che possono essere tenute sotto controllo solo se se ne riconosce la pervasività. Con tutto ciò il fatto che  a Roma e in molte altre città la gente si mobiliti in massa contro guerre volute dagli stati e a favore della pace auspicata dai popoli è un segno da accogliere, custodire e far crescere. 

In piazza a Roma (22.02.03)ultima modifica: 2003-12-25T12:40:00+01:00da piero-stefani
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