Il peso delle lapidi (19.04.03)

Il taccuino di Piero Stefani 

 

Con il termine emancipazione si allude a un processo storico attraverso il quale agli ebrei come individui fu concessa la pienezza dei diritti civili. Iniziatosi con la Rivoluzione francese questo fenomeno si estese gradualmente a tutta l’Europa nel corso del XIX sec. A Ferrara, dopo l’effimera vampata quarantottesca, si consolidò con l’annessione della città al Regno d’Italia. Dopo quasi due secoli e mezzo il ghetto cessava di esistere. Avvenne, ed è bene ricordarlo,  per opera di un moderno stato laico e non già per evoluzione interna di quel potere pontificio che lo aveva costituito.

Questo evento capitale ridisegnò il ruolo della presenza degli ebrei sul territorio, ma non mutò la polarità dei luoghi ebraici di Ferrara: l’area del ghetto e il cimitero di via delle Vigne restarono i riferimenti fondamentali. In altre città grandi (per es. Firenze, Roma) o piccole (per es. Vercelli) la fine del ghetto avrebbe condotto alla “monumentalizzazione” delle sinagoghe: da spazi chiusi e interni esse si dovevano mutare in grandi edifici dotati di facciate e di cupole. Insomma, bisognava costruire una specie di cattedrale ebraica che fosse però dall’esterno immediatamente riconoscibile come un luogo di culto non cristiano. Questa ragione indusse a ricorrere a stili moreschi o neobabilonesi. A Ferrara non vi fu nulla di simile. Le vecchie sinagoghe restarono spazi interni, subendo, come nel caso di quella italiana, solo qualche ritocco decorativo.

Tuttavia neppure nella nostra città quella volontà di rendere urbanisticamente visibile la presenza ebraica emancipata fu priva di riscontri. Gli sforzi si rivolsero però al cimitero di via delle Vigne e furono attuati dal più illustre architetto locale di inizio novecento: Ciro Contini. Allora “Babilonia” entrò nel cimitero ebraico: internamente con il grande, piatto edificio riservato alle onoranze funebri, esternamente con l’imponente porta squadrata  visibile fin da via Montebello.  Sull’architrave incisa in caratteri cubitali campeggia la seguente scritta: Bet mo‘ed le-kol chaj («casa di adunanza di ogni vivente»). La visibilità subentrò così alla “separatezza”. È sintomatico pensare alla contemporaneità del processo che ha condotto da un lato alla monumentalizzazione del cimitero esterno e interno di via delle Vigne (si pensi all’allusione alla fastosa tomba di cattivo gusto di nonno Moisè presente in una pagina de Il giardino dei Finzi Contini) e, dall’altro, all’abbandono del piccolo cimitero di via Arianuova.

La guerra e le deportazioni non hanno arrecato mutamenti di primaria grandezza nella collocazione dei luoghi ebraici di Ferrara. Quegli avvenimenti estremi hanno però introdotto una modalità profondamente nuova nell’osservarli. Le devastazioni fasciste iniziate nel 1941 e ripetute tra il 1943 e il 1944 arrecarono gravi danni sia all’edificio comunitario di via Mazzini sia alla sinagoga spagnola di via Vittoria. Irreparabili furono soprattutto le distruzioni del patrimonio librario e dell’archivio. Tuttavia gli spazi non furono stravolti. Nel secondo dopoguerra, dal punto di vista materiale, ci sarebbero stati gli estremi per ricostruire. La comunità colpita troppo duramente nel numero e nello spirito non ebbe però la forza di intraprendere questa via. In quegli anni anche nella nostra città l’attenzione per una rinascita ebraica era peraltro in gran parte rivolta al sorgere dello stato d’Israele. La sinagoga italiana – prima della guerra chiamata Tempio maggiore – non fu più ripristinata e divenne una sala di riunioni con tanto di caminetto, la sinagoga di via Vittoria fu trasformata in appartamento.

Vi fu però un intervento fondamentale. Esso parrebbe secondario da un punto di vista strettamente urbanistico, quella modifica introduce invece una percezione radicalmente diversa. Si tratta delle due grandi lapidi su  cui sono scritti i nomi di molte decine di deportati (e qui il pensiero va a un celebre racconto di Bassani) poste sulla facciata dell’edificio di via Mazzini. Chi passa vede e sempre più di frequente legge. Chi entra da quella porta divenuta una specie di “arco di desolazione” è indotto a ricordare. Nulla sarà davvero come prima. Quelle lapidi da sole ridefiniscono la percezione di tutti i luoghi ebraici presenti  nella nostra città.

Il peso delle lapidi (19.04.03)ultima modifica: 2003-12-25T12:05:00+01:00da piero-stefani
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