I due cimiteri (10.05.03)

 Il taccuino di Piero Stefani 

 

Da quasi quattrocento anni i luoghi ebraici di Ferrara, pur nelle grandi modifiche avvenute, sono stati caratterizzati dall’asse che va dalla zona dell’ex ghetto al cimitero di via delle Vigne. Questa ubicazione plurisecolare andrà incontro a un mutamento  con l’ormai approvata costituzione del grande  mausoleo in ricordo della Shoà. Allo stato attuale non appaiono ancora definiti né la sua collocazione, né i suoi contenuti precisi. In ragione del cospicuo stanziamento previsto, si sa  che dovrebbe avere un’ampiezza  che ne impedisce la sistemazione nella zona di via Mazzini. Sia che si riutilizzi qualche edificio già esistente, sia che se ne costruisca uno  nuovo si verrebbe così a creare  a Ferrara un terzo polo connotato ebraicamente.  Le città sono realtà vive, la trasformazione  fa perciò parte della loro grammatica di fondo. Tuttavia è  auspicabile che chi dovrà decidere in tal senso sappia leggere gli spazi del passato: per una istituzione destinata a ricordare sarebbe paradossale dimenticare la memoria dei luoghi ebraici della città.

In varie città italiane  entro un cimitero pubblico vi è una zona destinata alle sepolture  ebraiche (si pensi ai fatti dell’anno scorso, dove a Roma è stato danneggiato il settore ebraico del cimitero). A Ferrara le cose non stanno così: da noi esiste un vasto e autonomo cimitero ebraico. Tuttavia le vicende storiche hanno fatto sì che ci fosse ugualmente una  prossimità tra le tombe ebraiche e quelle dell’altra popolazione. Ciò è dovuto a quello che è tuttora il più grande  riutilizzo di un luogo sacro avvenuto a Ferrara: la trasformazione della Certosa in cimitero. Questo atto ottocentesco si è così sedimentato nella  psicologia della città da rendere, di fatto, quasi equivalenti le due espressioni. In effetti quasi ci si stupisce che a qualche non ferrarese la frase “andare in Certosa” possa apparire non equivalente ad “andare al cimitero”.

Questo passaggio  da luogo sacro e monastico ad “altro” è avvertito in  modo non particolarmente accentuato. Ciò è dovuto non solo alla ormai lunga distanza temporale che ci separa dalla trasformazione, ma anche al fatto che il “camposanto” stesso è considerato luogo sacro. In realtà la vicenda è più complessa. A comprovarlo non è tanto la, peraltro rara, presenza di tombe che rifiutano in modo esplicito una connotazione religiosa, quanto il fatto che, a partire dall’Ottocento, nell’arte funeraria e nella modalità di visita alle tombe prevale una componente più sentimentale che sacrale. Come hanno dimostrato molti studi, a iniziare da quelli classici di Philippe Ariès, il culto dei morti ottocentesco fu una reazione alla dissacralizzazione illuminista che diede luogo a un tipo di religiosità memoriale e sentimentale entro cui si fece sempre più sfumata la distinzione tra laici e credenti.

Verrebbe voglia di affermare che il luogo appartato e monastico in cui risiedevano i certosini è diventato parte della città per via cimiteriale. Tuttavia qui conviene essere più aperti al senso della “vanitas vanitatum”. Le cose stanno innanzitutto in senso opposto: è la Certosa ad aver inglobato in se stessa la città. La città dei morti è dove vanno a finire i vivi:  in senso definitivo quando i vivi cessano di essere tali, in senso temporaneo quando vanno a trovare i loro cari che li hanno lasciati. In un certo senso è vero che la Certosa-cimitero  va letta in se stessa come una specie di città con le sue modifiche, i suoi ampliamenti (nuovi chiostri, nuove “periferie”), con il succedersi degli stili monumentali, con l’introduzione di costumi inediti in spazi che in passato li avrebbero respinti (si pensi  alla pratica della cremazione), con i continui lavori di manutenzione e così via. Tutto ciò indica un’ovvietà: sono sempre i vivi a creare le città dei morti.

Nonostante il fatto che anche lì siano avvenute modifiche, il cimitero ebraico appare nel complesso meno mobile. Non è solo questione di numeri. L’inamovibilità delle sepolture ebraiche definisce diversamente gli spazi. L’adattabilità del rito cattolico seguito ancora dai più  – di fronte alla morte la nostra società laicizzata stenta a individuare riti alternativi – si intreccia invece in maniera più articolata con l’orizzonte della secolarizzazione. 

I due cimiteri (10.05.03)ultima modifica: 2003-12-25T11:55:00+01:00da piero-stefani
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