428__Interpretare il Vaticano II (14.04.2013)

Il pensiero della settimana n. 428

 

Interpretare il Vaticano II[1]

 

     Del libro di Massimo Faggioli, Interpretare il Vaticano II[2],  si era già

 

 parlato, a Ferrara, nel giugno 2012, quando era a disposizione solo l’originaria edizione americana. È ovvio che allora ci si trovasse in un clima ecclesiale ben diverso. Le  modifiche avvenute dall’anno scorso a oggi sono dovute a un’eredità del Vaticano II. 

     Senza il Concilio:

·        non sarebbe stata pensabile (de facto se non de jure) la rinuncia di un papa;

·        senza la mondializzazione del cattolicesimo, di cui il Vaticano II è stata la esemplificazione più evidente, non sarebbe stata pensabile la elezione di un vescovo di Roma extra europeo.

     È ipotizzabile che proprio queste due ‘realizzazioni’ conciliari siano tali da mettere meno direttamente al centro il problema dell’ermeneutica del Vaticano II.  Benedetto XVI ( vedi in primis il discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 che è, forse, il punto più importante di contestualizzazione nel libro di Faggioli) aveva come propria  principale preoccupazione quella di interpretare il Vaticano II; i primi passi di Francesco sembrano piuttosto indicare che il fulcro del problema si situi nel vivere in uno stile conciliare.

     Il nucleo portante del libro di Faggioli si trova nel nesso “ermeneutica-storia”, o meglio ancora nel legame tra ermeneutica e storiografia colto a partire da un ‘evento’ conciliare che ha posto proprio la storia come un locus theologicus. Le parole pressoché conclusive del testo sono, al riguardo, davvero riassuntive: «La storicizzazione del Vaticano II iniziata nei tardi anni ’80 ha chiaramente introdotto un cambiamento ermeneutico nella teologia del Vaticano II» ( p. 143).

     In passato le grandi opere storiografiche erano scritte programmaticamente  «dopo», quando era ormai chiaro che un periodo si era concluso. Giuseppe Flavio scrisse le sue  Antichità giudaiche (e il titolo dice già tutto) dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C; Eusebio di Cesarea redasse la sua Storia ecclesiastica dopo che Costantino aveva legittimato, nell’ambito dell’Impero, l’esistenza del cristianesimo. La produzione storiografica come soggetto attivo della recezione di un avvenimento in corso di applicazione è culturalmente moderna. Per mancanza di competenze adeguate, non so stabilire se ciò fosse anticipato già in relazione al Concilio di Trento, quando cardinal Pallavicino s.j (1607-1667) ritenne necessario replicare con un imponente lavoro storiografico alla famosa opera di Paolo Sarpi (apparsa nel 1619). In ogni caso, con Pallavicino, si era un secolo dopo un concilio chiusosi nel 1563.

     Interpretare il Concilio pone la domanda di quanto la produzione storiografico-interpretativa abbia influito sulla recezione del Vaticano II. Lo storico gesuita  John O’Malley ha terminato una sua recente conferenza proponendo un’apologia dello studio storico come un via che aiuta  essere “buoni cristiani”. Basta essere storici per decostruire inconfutabilmente la tesi conservatrice che bolla ogni innovazione in quanto antitetica alla “Chiesa di sempre”. Per chi ha uno sguardo storico la comparsa di scenari nuovi non si presenta come una rottura insanabile avvenuta all’interno di una tradizione immodificabile.

     Tuttavia alle spalle del Vaticano II non c’è solo una volontà di “aggiornarsi”, vale a dire di pensare alla storia come  luogo ermeneutico, c’è anche  il ressourcement, cioè un’esplicita affermazione della necessità di ritornare alle fonti, a iniziare dalla Bibbia stessa (cfr. Dei Verbum). La dimensione memoriale è stata una delle grandi prospettive conciliari (si pensi alla liturgia). Fare memoria non è la stessa cosa di fare storia. Se così si potesse dire, nel Concilio l’attenzione ai “segni dei tempi” andò di pari passo con il valore paradigmatico riservato all’ “origine” intesa come un evento da celebrare.

Ci si può chiedere se una parte del  futuro del Vaticano II non passi attraverso la “memoria viva” di esso. Vale a dire, se non si realizzi in  uno stile conciliare che diviene una citazione, non di rado indiretta, del Concilio.  Si tratta, almeno in alcuni casi, di “eventi” che mettono in pratica l’“evento” conciliare anche al di là dei testi. Un esempio paradigmatico in proposito lo fornì Giovanni Paolo II ad Assisi  nel 1986. Quella giornata di preghiera interreligiosa resta una pietra miliare nell’ermeneutica conciliare. Forse il pontificato di Francesco vescovo di Roma darà luogo anch’esso a segni di questo tipo.

     Nell’incontro del giugno scorso fu posta a Faggioli la domanda su cosa avesse incagliato l’applicazione del Vaticano II. La sua risposta fu: la Gaudium et Spes. La lettura del libro dà ragione di quella sentenza che, detta così, può sembrare insoddisfacente.  In uno dei capitoli cruciali del testo, in relazione alla comprensione del dibattito  teologico ad intra, Faggioli propone un confronto tra neo-agostiniani (tra le cui file annovera, per esempio, von Balthasar e Ratzinger) e neo tomisti. Per riassumere in modo schematico la questione di potrebbe dire che  i primi parlerebbero di Chiesa e mondo, mentre i secondi riproporrebbero alla lettera il sottotitolo della Gaudium et Spes: la Chiese nel mondo contemporaneo. Da un lato si sottolinea l’«alterità», dall’altro la possibilità che, pur salvaguardando le differenze, sia aperta la via a una sapiente «integrazione». Alla fin fine, si tratta di una diversa concezione di antropologia teologica.

     La genialità dei neo-tomisti (in primis Congar) fu di non essere neo-scolastici. Non si era ripetitori, ma ci si comportava con il sapere contemporaneo nello stesso spirito con cui Tommaso operò nei confronti della scienza del suo tempo. Vi è un’analogia anche con quanto Galileo affermava nei confronti degli aristotelici suoi contemporanei: a suo dire era lui il vero peripatetico perché si comportava come Aristotele che indagava senza sottoporsi al principio di autorità.

     Dall’epoca del Concilio Vaticano II a oggi,  nella conoscenza scientifica, si è attuato uno  spostamento d’accento dall’egemonia attribuita a una dimensione che potremmo definire socio-psico-pedagogica a una conoscenza definibile in termini psico-biologico-tecnici  (cfr. per es.  le neuroscienze) la cui diffusione sia teorica sia pratica lancia sfide radicali rispetto all’antropologia. Fino a oggi, in ambito cattolico, si è cercato vanamente di rispondere a questo enorme problema con le armi spuntate di una “neo-scolastica” (cfr. la bioetica “ufficiale”); tuttavia, su questo fronte, si può essere neo-tomisti ottimisti? Vale a dire, è dato di costruire un’antropologia teologica che dialoghi positivamente con le neuroscienze, le biotecnologie, ecc.? La sfida è reale e il suo esito è tutt’altro che scontato.

Piero Stefani

 

 




[1] Riprendo, in forma ancora largamente di appunti, l’intervento tenuto presso la parrocchia di Santa Francesca Romana di Ferrare il 5 aprile 2013.

2  Ed. Dehoniane Bologna 2013.

428__Interpretare il Vaticano II (14.04.2013)ultima modifica: 2013-04-13T09:18:08+02:00da piero-stefani
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3 pensieri su “428__Interpretare il Vaticano II (14.04.2013)

  1. Problema di fondo: l’attuale teologia antropologia è credibile se rapportata al progresso delle scienze umane? Il mio studio teologico risale a qualche decennio fa, comunque ritengo che attualmente sia impossibile ristrutturare il “manuale” sino a quando l’ermeneutica delle scienze umane non si precisi ulteriormente. distiti saluti Luisa Alfieri

  2. Il confronto fra l’antropologia teologica e le scienze umane dovrebbe tenere conto del fatto che biologicamente l’uomo non nasce uomo ma lo diventa, cioè che la qualità di essere uomo non è un fatto singolare, ma un insieme di caratteristiche qualitative e quantitative che si acquisiscono progressivamente nella nascita e si perdono a volte progressivamente nella morte. Inoltre la biologia insegna che l’uomo non diventa tale se non nel rapporto con la madre nell’utero e successivamente nell’inizio della vita neonatale (epigenetica), come per tutte le specie animali superiori. Due fatti che sono in contrasto con la concezione aristotelica dell’animo umano. Il ragionamento metafisico, non biblico, che l’embrione è uomo, è contrario alla biologia e frutto di un pensiero elementare che è sufficiente una singola qualità, che si presume già presente nell’embrione, per essere definito uomo. Quindi l’abbandono della metafisica e dell’ontologia per una visione biblica dell’uomo sarebbe un passo indispensabile.

  3. Trovo molto interessante l’argomento e credo che la Gaudium et Spes suggerisca proprio un’idea di Chiesa nel mondo, cioè chiesa che si fa mondo incarnandosi nella storia degli uomini. La paura espressa dai documenti di varie gerarchie è quella della contaminazione con qualcosa che sia estraneo alla tradizione, al si è sempre fatto così. Ma oggi questo discorso non tiene più e la Gaudium et Spes in tempi non ancora maturi lo aveva previsto. Oggi, se la Chiesa è nel mondo, confronta se stessa e matura se stessa crescendo insieme al mondo,
    nel quale porta esperienza viva del Vangelo. Solo così evangelizza gli uomini di oggi e può essere luogo di comprensione e di abbraccio prima che cattedra di giudizio.
    Ciao Piero, grazie sempre
    Elena

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