XXIII Domenica del tempo ordinario (C)Per essere discepoli

Domenica XXIII del tempo ordinario
Sap 9,13-18; Sal 90 (89); Fm 1,9-10.12-17; Lc 14, 25-33

Per essere discepoli

«Se uno viene dietro a me e non mi ama più di quanto non ami suo padre sua madre […] e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26). Così la traduzione della CEI. Il testo greco però ricorre al vero miseō che significa «odiare» (si pensi a parole composte italiane tipo misantropo). Reso alla lettera il passo suona perciò in questo modo: «Se qualcuno viene da (pros) me e non odia suo padre e sua madre [… ] e anche la sua vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la croce di sé (eautou) e non viene dietro (opisō) a me non può essere mio discepolo» (Lc 14,26-27).
Ci sono due momenti: il primo è andare da Gesù, il secondo è seguirlo. Entrambi i passaggi sono legati a delle precondizioni: la prima è odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli e sorelle e persino se stessi, la seconda è rendere se stessi croce. Data la durezza del vivere, è consueto ascoltare l’espressione «ognuno ha la sua croce (di solito, non occasionalmente, detta al plurale: “croci”)». Non è questo il senso del discepolato. Seguire Gesù comporta odiare e rinnegare se stessi, vale a dire trasformare in croce tutta la propria vita. Non si tratta di dolori da sopportare, di sventure che ci piombano addosso; quanto è in gioco è l’offerta della propria vita a motivo del vangelo. Soltanto chi perde la propria vita la salverà (Lc 9,24). Odiare se stessi è la porta stretta che conduce a diventare discepoli.
Di fronte all’impatto sconcertante suscitato dal verbo «odiare» ci si appella all’attenuazione, si sostiene perciò che esso va inteso nel senso semitico di «amare meno». Nel passo parallelo di Matteo non si afferma forse che chi ama padre e madre più di Gesù non è degno di lui (Lc 10,37)? Tuttavia una lettura che mira a stabilire una equilibrata gerarchia di valori è lontana dallo spirito evangelico. Come afferma Kierkegaard nelle pagine di Timore e tremore è forse pensabile che il vangelo imponga a qualcuno di «amare di meno»? Forse lo sposo che abbandona (la lettera biblica dice così) il padre e la madre per unirsi alla propria sposa (Gen 2,24) li ama di meno? Eppure li abbandona; se ne va di casa per iniziare una nuova vita. Analogamente avviene per chi vuole seguire Gesù; soltanto che in più a lui è chiesto persino di abbandonare se stesso. Le due brevi parabole che seguono l’indicazione di odiare i propri cari, quella della torre da costruire e quella dell’esercito di affrontare (Lc 14,28-33) appaiono orientate (si legge ancora in Kierkegaard) a indicare l’imprescindibilità di questa drastica esigenza. Tuttavia (aggiungiamo) esse sono anche paradossali per quel tanto in cui ricorrono al linguaggio della previsione e del calcolo per illustrare una scelta radicale che non ha nulla da spartire con simili parametri. Al discepolo è chiesto di seguire Gesù, non di progettare il proprio futuro. Il paragone va quindi colto solamente come indice del fatto che ci sono precondizioni indispensabili alle quali non ci si può sottrarre; quella connessa a essere discepolo è odiare se stessi e fare della propria vita una croce.
«Chi non odia suo padre e sua madre…», «chi non porta la croce». Il senso e l’urgenza di queste parole, lungi dall’attenuarla, addirittura ribadiscono la stretta connessione che intercorre tra la propria vita, la propria casa e i propri beni; alla fine delle due parabole della torre e dell’esercito si legge: «chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Essi infatti costituiscono un nucleo tanto forte e saldo da far sì che non sia dato di odiare i propri genitori, i propri figli, la propria sposa (particolare proprio di Luca), la propria casa senza odiare con ciò anche se stessi. Si legge nella lettera agli Efesini: «Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato (miseō) la propria carne, anzi la nutre e la cura» (Ef 5, 28-29). L’abbandono, il distacco, l’odio sono richiesti proprio perché si ama e non già perché si «ama meno». Si ama ma non si è pacificati abitatori di questo mondo: chi vuole salvare la propria vita la perderà, chi la perderà – vale a dire la odierà – a causa di Gesù e del vangelo la salverà. Il «buon annuncio» parla il linguaggio della fede non quello dei valori.

XXIII Domenica del tempo ordinario (C)Per essere discepoliultima modifica: 2019-09-07T09:15:20+02:00da piero-stefani
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