Il Padre Nostro ammorbidito

Il Padre Nostro ammorbidito (1)

Papa Francesco incontra i giovani al Circo Massimo e risponde alle loro domande. L’inizio è avvolto in un’atmosfera onirica: nei quesiti e nelle repliche domina, specie in relazione alle scelte di vita lavorative e amorose, la parola «sogno». Viene il turno del ventisettenne Dario e il tono muta in modo repentino. Lui un lavoro ce l’ha, è un infermiere dedito alle cure palliative. A guidare le sue domande è il presente, non il futuro. Quando si confronta con la fede in lui i dubbi prevalgono sulle certezze. Dio, gli hanno raccontato, è grande e buono, allora come mai nel mondo ci sono tante ingiustizie e sofferenze? Il suo lavoro lo pone quotidianamente di fronte alla morte e gli fa vedere giovani genitori costretti ad «abbandonare» i loro figli. La Chiesa gli appare chiusa nei suoi rituali e distante.
Il papa dà credito al suo interlocutore di aver messo il dito nella piaga del «perché». Ci sono domande che non trovano risposta, tra esse quella sulla sofferenza dei bambini. Solo guardando al Crocifisso e a sua madre che sta ai piedi della croce troviamo una strada che ci comunica qualcosa. Poi Francesco aggiunge: «Nella preghiera del Padre Nostro (cfr Mt 6,13) c’è una richiesta: “Non ci indurre in tentazione”. Questa traduzione italiana recentemente è stata aggiustata alla precisa traduzione del testo originale, perché poteva suonare equivoca. Può Dio Padre “indurci” in tentazione? Può ingannare i suoi figli? Certo che no. E per questo, la vera traduzione è: “Non abbandonarci alla tentazione”. Trattienici dal fare il male, liberaci dai pensieri cattivi …».
Il Padre Nostro termina con due domande tra loro strettamente connesse, la prima riguarda la tentazione, la seconda chiede: «ma liberaci dal male». Nell’orizzonte dell’esistenza e degli interrogativi sorti dalla fede si coglie subito il nesso tra le due richieste. Per chi si pone in una prospettiva simile a quella di Dario, è pensabile che il senso delle domande sia il seguente: non indurci nella tentazione di credete che Tu, Padre, non sia capace di liberarci dal male; il tuo non intervenire non istilli dubbi nel nostro cuore. Il silenzio di Dio, quando dilaga la sofferenza e la sopraffazione dei violenti non trova argini, fa sorgere nella coscienza di molti questa tentazione e non si tratta di cattivi pensieri. Se non lo compie Dio, chi altri può liberarci dal male? Ci si può domandare se questo intreccio di interrogativi, presente nella dimensione esistenziale, trovi corrispondenza nell’analisi testuale della preghiera di Gesù. Davvero le due ultime richieste del Padre Nostro sono legate tra loro? Davvero la resa con il verbo «abbandonare» costituisce una traduzione «precisa» del testo originale? La risposta alle due domande è di segno opposto: nel primo caso è affermativa, nel secondo negativa.
Assente in Luca (11, 2-4), il nesso tra tentazione e liberazione dal male è attestato in modo identico sia in Matteo (6,9-13), sia nella Didachè (8,2; testo risalente al I-II secolo d.C.). Il Padre Nostro nel suo insieme è formato da sette domande: tra esse una sola chiede al Padre di ‘non fare’. Nei Dieci comandamenti, la cui osservanza spetta agli esseri umani, prevale il ‘non’ (non avrei altri dèi di fronte a me, non nominare il nome di Dio invano, non uccidere, non commettere adulterio, non rubare… cfr Esodo 20, 1-17); nella richieste rivolte al Padre la preminenza spetta all’agire positivo da parte di Dio. Vi è un’unica eccezione, quella relativa alla tentazione; essa però viene immediatamente compensata dal «ma» che introduce l’essere liberati dal male. Nell’originale greco il verbo è ryomai che alla lettera significa «essere tenuto lontano da»; la richiesta conclusiva rivolta al Padre fa dunque comprendere il senso autentico della domanda di non essere introdotti nella tentazione.
«Non indurci», «tentazione», «male», così i termini italiani che abbiamo nell’orecchio e forse nel cuore, ma cosa troviamo in greco? Kai mē esenenkēs ēmas («e non indurci»). Il testo fa ricorso a una particolare forma (si tratta di un congiuntivo aoristo dal valore volitivo) del verbo eispherein. Il suo significato è: «immettere», «introdurre», «collocare in una certa realtà». Il latino inducere («et ne nos inducas») è una resa fedele del greco, significa infatti «condurre dentro, introdurre». Il calco dal latino presente nell’italiano «indurre» è fuorviante là dove fa balenare un’idea di intenzionalità che annulla la metafora spaziale propria delle due richieste: non introdurci (non farci entrare) nella tentazione ma tienici lontani dal male. La traduzione interpretativa «non abbandonarci» può rivendicare a se stessa una maggiore corrispondenza alla visione contemporanea di Dio, ma non è più «precisa».
Peirasmos «tentazione», ma anche «prova». Alle sue spalle c’è una lunga storia che giunge fino alle vicende dell’esodo dall’Egitto (ma si potrebbe risalire anche più indietro per giungere ad Abramo, Genesi 22,1). Nel corso della quarantennale peregrinazione di Israele nel deserto più volte si fa ricorso al verbo «tentare» o «mettere alla prova». Ma chi «tenta» e chi «è tentato»? Il discorso è ambivalente; in più occasioni si parla del popolo che «tenta» Dio e in altre di Dio che «tenta» il popolo (la radice verbale ebraica è sempre la stessa nśh). Le traduzioni correnti differenziano: quando il soggetto è Dio optano per «mettere alla prova», quando è il popolo di Israele scelgono «tentare». La diversificazione dipende da una precomprensione teologica. In realtà sul piano narrativo il perno su cui ruota il discorso è lo stesso, il popolo mette alla prova Dio quando gli domanda di essere fedele alla sua opera di liberatore (con il forte rischio di cadere nell’ hybris) e Dio mette alla prova il popolo quando chiede di restargli fedele in un deserto in cui non è dato vedere alcuna terra promessa. Tuttavia nel Padre Nostro si domanda di non essere messi alla prova. Lo scenario muta completamente. La ricerca biblica contemporanea spiega per lo più questa modifica affermando che il senso originario della preghiera è escatologico. Il «noi» è riferito ai discepoli che si trovano di fronte alla prova suprema posta subito prima del giudizio finale; essa è così forte e lacerante che, come afferma altrove il Vangelo (Matteo 24,21-22), se quei giorni non fossero abbreviati (ma lo saranno «grazie agli eletti») nessuno si salverebbe. Va da sé che questa lettura, tutt’altro che priva di fondamenti sul piano storico-critico, ben difficilmente trova corrispondenza nella spiritualità quotidiana dell’orante.
«To ponērov»: «male» o «maligno»? La lettura personale da Origene in poi è seguita da tutta la tradizione greca e gode del sostegno di molti paralleli neotestamentari. Nella visione cristiana classica una resa come «non farci entrare nella tentazione ma tienici lontani dal Maligno» troverebbe molti riscontri. Tuttavia è innegabile che grande è la forza dell’espressione «liberaci dal male». La preghiera di Gesù che inizia con «Padre» si conclude con la parola «male», un accostamento che evidenzia il confronto radicale che innerva la vita di fede.
È ormai dato per scontato che a novembre la Conferenza episcopale italiana assumerà anche in sede liturgica la versione «non abbandonarci alla tentazione» già presente nella traduzione ufficiale del 2008 (Matteo 6,13). Così facendo proporrà ai fedeli un’immagine di Dio più tranquilizzante, tuttavia, per una fede che vive di paradossi, è improbabile che essa sia la più autentica.

Piero Stefani

(1) Titolo redazionale. Articolo apparso su Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2018, p. 15

Il Padre Nostro ammorbiditoultima modifica: 2018-08-18T18:34:25+02:00da piero-stefani
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