297 – «Sulla strada per diventarlo» (06.06.2010)

Il pensiero della settimana n. 297 

 

Nell’immediato secondo dopoguerra lo storico francese Jules Isaac, che aveva visto sterminata  nei lager gran parte della sua famiglia,  pubblicò un libro intitolato Gesù e Israele (Marietti, 2001). Esso si proponeva di contribuire a estirpare il pregiudizio antiebraico all’interno della Chiesa cattolica. Il testo, costruito per argomenti, dopo aver  sottolineato l’appartenenza di Gesù al popolo d’Israele e l’origine ebraica del cristianesimo, inizia a confutare le varie accuse antigiudaiche, a cominciare da quella secondo cui la dispersione del popolo ebraico rappresenta una punizione divina per aver rifiutato il vangelo e per aver messo a morte Gesù. In realtà, afferma Isaac, la diaspora ha un’origine molto più antica: già all’inizio del I secolo d. C. la maggior parte degli ebrei viveva fuori della terra d’Israele. Si tratta di una semplice verità storica; eppure il pregiudizio cristiano, che ben sapeva della grande, antica comunità ebraica di Alessandria e della predicazione evangelica nelle sinagoghe dei paesi mediterranei, continuava a ripetere:  fino al 70, il popolo d’Israele era indipendente, poi, persa (per punizione divina) la patria, iniziò la triste diaspora.

Il sionismo  ha creato molti miti nazionali. Eventi prima trascurati nella tradizione ebraica (per es. Masada) sono stati eroicizzati; la diaspora è stata considerata spesso in modo cupo; tuttavia alcuni dati storici continuavano a imporsi. Non è vero che tutto è cominciato con il 70, né sul fronte del prima, né su quello del dopo: la seconda guerra giudaica terminò solo nel 135 e la “paganizzazione” di Gerusalemme a opera di Adriano ebbe luogo soltanto allora. Tuttavia, almeno all’interno dell’attuale dirigenza dell’ebraismo italiano, anche i riferimenti agli inizi del II sec. sembrano  ormai particolari trascurabili. Non è raro perciò assistere a una paradossale, quanto consapevole,  riproposizione del pregiudizio antiebraico (eccezione fatta, si intende, delle motivazioni teologiche). «I fattori che rendono veramente speciale la presenza ebraica in Italia sono molteplici. Innanzi tutto la sua antichità poiché la sua origine risale a 2 mila 200 anni fa, al periodo della Roma repubblicana, oltre due secoli e mezzo prima di quel fatale anno 70 che vide la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito e l’inizio della diaspora, la dispersione degli ebrei nel bacino del Mediterraneo e nei tre continenti» (Renzo Gattegna). La frase accosta due termini incompatibili: gli ebrei vivono in diaspora prima che essa cominci.  Si potrebbe obiettare che si trattava di piccoli frange. Tuttavia, come si è detto, si trattava di ben altre dimensioni: già nel primo secolo – senza che  intervenissero particolari coercizioni esterne – la maggioranza del popolo ebraico viveva fuori della terra d’Israele.

L’invenzione di miti storici è parte organica della costruzione di ogni identità collettiva.  Spesso importa poco se essi siano palesemente falsi sul piano dei fatti. Per affermarsi,  il regime di cristianità  fu obbligato a inventare il mito della punizione ebraica e a esasperare la cessazione del culto sacrificale del Tempio di Gerusalemme; per buona parte dell’ideologia sionista è inevitabile riferirsi alla visione della patria perduta e riconquistata. Il pericolo più alto che si annida nella retorica di un ritorno all’antica indipendenza, è di presentare lo Stato d’Israele come fatalmente costituito in base all’intreccio di due componenti: l’essere a un tempo ebraico e democratico. È una contraddizione di fondo che grava su di esso fin dalla sua nascita nel 1948 e che  ha reso tuttora  impossibile – assieme a molti altri fattori – la soluzione del nodo israelo-palestinese. Non si tratta solo di problemi istituzionali e civili di non poco conto legati al confronto interno tra religiosi e laici; quanto è in gioco è il modo stesso di presentarsi come stato. Prospettarsi come «Stato ebraico» significa rendere la componente demografica un problema costituzionale e politico ineliminabile. Se i territori occupati nella guerra del 1967 non sono stati mai annessi in modo definitivo è solo perché tale operazione avrebbe impedito di mantenere a Israele anche solo la parvenza di essere sia ebraico sia democratico. Tuttavia, sull’altro versante, la non volontà di dar luogo, in tempi storicamente ragionevoli, a uno stato palestinese indipendente ha trascinato Israele in una contraddizione da cui non è più uscito: da più di quarant’anni la sua indipendenza nazionale si regge anche in virtù della negazione di quella di un altro popolo. Tutti gli scadimenti etici e politici israeliani derivano, in ultima analisi, da questo nodo.

Un grande intellettuale israeliano del Novecento – da sempre sionista – Y. Leibowitz dichiarò in un’intervista nel 1988: «“Le sue posizioni relative ai territori occupati sono basate su una valutazione puramente pragmatica, razionale, strategica, economica, sociologica, politica di questo stato di cose?” “Politica. Detesto il fascismo. E lo Stato d’Israele, mantenendo una dominazione violenta sopra un’altra nazione diverrà necessariamente fascista. Non lo è ancora. Possediamo un alto grado di libertà di stampa e di libertà di parola. A tutt’oggi lo Stato non è ancora fascista. Ma è sulla strada per diventarlo» (Il Regno documenti 1,1989, p. 62).

Più di vent’anni dopo siamo in realtà allo stesso punto, «è sulla via per diventarlo»,  il che è, a un tempo, conferma e smentita delle previsioni di allora.  Per comprendere adeguatamente questa qualifica bisogna però tener presente cosa Leibowitz intendesse per fascismo: si trattava innanzitutto di una posizione che attribuisce all’esistenza dello stato un valore in se stesso. Nella fattispecie, ciò  lo renderebbe non  già (come per l’originaria ispirazione della maggior parte del sionismo) «Stato degli ebrei»,  ma appunto integralmente «Stato ebraico». Una conseguenza di ciò è che la difesa dello stato diventa valore supremo in base al quale tutto diviene lecito. Tutto si giustifica in virtù della sicurezza, il diritto è quindi sistematicamente calpestato. Con ogni probabilità è già irrimediabilmente tardi, né all’orizzonte si vedono tendenze che vanno in questa direzione; rimane comunque un passaggio imprescindibile alla pacificazione dell’area: il fatto che Israele cessi, una volta per tutte, di essere «Stato ebraico» per diventare solo democratico. 

Piero Stefani

 

 

 

 

297 – «Sulla strada per diventarlo» (06.06.2010)ultima modifica: 2010-06-05T10:35:00+02:00da piero-stefani
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