228 – A settanta anni dalle leggi razziali (2) – (07.12.08)

Il pensiero della settimana, n. 228 

A settanta anni dalle leggi razziali (2) [1]

 

Senza lo sfondo costituito dall’emancipazione non si potrà mai trasmettere alle giovani generazioni il senso di incredulo sgomento provato dalla maggior parte degli ebrei italiani nel 1938. In effetti il tumultuoso susseguirsi di norme e decreti legislativi aveva introdotto una supposta diversità razziale là dove vigeva una piena integrazione nazionale. La menzogna della razza coincide con l’invenzione della razza come criterio discriminatorio. Vi è un percorso agevole per comprendere l’artificialità  della costruzione. Esso consiste nel ripercorrere le varie definizioni di appartenenza a una (presunta) razza ebraica proposte dalle misure legislative succedutesi a partire dal settembre del 1938. Esse iniziano con il regio decreto legge 5 settembre 1938-XVI n. 1350, «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista», firmato da Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della nazione re d’Italia imperatore d’Etiopia, a San Rossore (nome che, scritto in minuscolo, avrebbe ben dovuto coprire il volto del firmatario). In sintesi, i primi cinque articoli del decreto stabiliscono l’espulsione dal sistema scolastico italiano di docenti e studenti di «razza ebraica». Per imbatterci in una definizione (peraltro non priva di componenti tautologiche) di chi vada considerato ebreo bisogna giungere al sesto articolo: «Agli effetti del presente decreto legge è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di razza ebraica, anche se egli  professi religione diversa da quella ebraica». La norma da un lato ribadisce il carattere puramente biologico dell’idea di razza (in tal senso si era espresso il Manifesto degli studiosi), mentre dall’altro afferma semplicemente che appartiene alla razza ebraica chi è figlio di ebrei. Si tratta, dunque, di un discorso  paragonabile a quello che sostenesse che la mela è il frutto che deriva da un albero nato da un seme di mela, senza precisare in alcun modo quali siano le caratteristiche che la distinguono da una pera.

Il regio decreto legge 15 novembre 1938-XVII n. 1779, «Integrazione e coordinamento in un unico testo delle norme già emanante per la difesa della razza nella scuola italiana», affronta una serie di casi particolari, ma non apporta alcuna integrazione  alla precedente (pseudo) definizione di razza ebraica. Diverso il caso per il più esteso regio decreto legge 17 novembre 1938-XVII n. 178. «Provvedimento per la difesa della razza italiana». Esso estende la legislazione ben al di là della sfera scolastica.  Più specificatamente il suo capo I proibisce i matrimoni misti, mentre il capo II definisce «gli appartenenti alla razza ebraica». In questa sezione il razzismo biologistico, ribadito in partenza, è reimpastato con principi ad esso difformi. Per esempio nell’articolo 8 cominciano a far capolino fattori legati alla religione e alla nazionalità:

«Agli effetti di legge:

è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica;

è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera;

è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre;

è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1° ottobre 1938-XVI, apparteneva a religione diversa da quella ebraica.»

L’art. 9 afferma che gli appartenenti alla razza ebraica devono essere iscritti «in appositi registri» (disposizione destinata ad avere tragiche conseguenze all’epoca delle deportazioni). L’art. 10 enumera una nutrita serie di divieti in base ai quali gli ebrei non possono prestare servizio militare, possedere o gestire aziende di interesse nazionale o aziende di qualsiasi natura con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni di vaste dimensioni o di locali di ingente imponibile, ecc.  L’art. 11 recita: «Il genitore di razza ebraica può essere privato della patria potestà sui figli che appartengano a religione diversa da quella ebraica, qualora risulti che egli impartisca ad essi una educazione non corrispondente ai loro principi religiosi o ai fini nazionali». L’art. 13 elenca gli enti a cui è interdetto avere dipendenti ebrei. Dal canto suo l’art. 14, accantonando ogni rigido biologismo, enumera le categorie di ebrei che possono chiedere di essere discriminanti dall’applicazione delle leggi razziali. I due principali criteri invocati per attuare questa operazione si riducono al fattore nazionale (o più propriamente nazionalistico) e a quello legato a una precoce fedeltà al fascismo (o a un’adesione ad esso nei mesi di difficoltà seguiti al delitto Matteotti).  Qui si potrebbe intravedere all’opera l’opzione ideologica, teorizzata, per esempio, da Vicenzo Mazzei (Università di Roma) in un libro del 1942 intitolato Razza e nazione che individua la specificità italiana nel tentativo di conciliare il concetto di «nazione», realtà spirituale appartenente al dominio delle scienze storiche, e il concetto di razza, realtà naturalistica e oggettiva appartenenza al mondo delle scienze naturali. Va da sé che un centauro rappresenta, nella sua difformità, un composto più coerente di quello proposto da tali interessate elucubrazioni.

«Il Ministro per l’Interno, sulla documentata istanza degli interessati, può, caso per caso, dichiarare non applicabili le disposizioni degli articoli 10 e 11, nonché dell’art. 13, lett. h):

ai componenti le famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista;

a coloro che si trovino in una delle seguenti condizioni:

mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola;

combattenti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, che abbiano conseguito almeno la  croce al merito di guerra;

mutilati, invalidi, feriti della causa fascista;

iscritti al Partito Nazionale Fascista negli anni 1919 – 20 – 21 – 22 e nel secondo semestre del 1924;

legionari fiumani;

abbiano acquisito eccezionali benemerenze, da valutarsi ai termini dell’art. 16.

Nei casi preveduti alla lett. b), il beneficio può essere esteso ai componenti la famiglia delle persone ivi elencate, anche se queste siano premorte.»

Rispetto a questo tema la successiva legge 29 giugno 1939-XVII, n. 1054, disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica, non apporta alcuna modifica.

Nel complesso il coacervo di fattori eterogenei (biologico, nazionalistico, ideologico, religioso) presente nelle misure legislative degli ultimi mesi del 1938 è spia evidente dell’artificio di una costruzione normativa volta a segregare una componente di cittadini italiani. Operazione gravissima che diventò tragica nell’Italia del dopo 8 settembre. Allora il linguaggio mutò di colpo, discriminazioni, meriti nazionalistici, mutamenti di credi religiosi, convinta adesione al fascismo non contarono più nulla. Le misure prese dalla Repubblica Sociale Italiana non avevano più bisogno di distinguo. Per provarlo basti trascrivere alcune disposizioni, datate 30 novembre 1943, a firma del ministro Buffarini Guidi e rivolte a «Tutti i capi delle Province libere»:

« Nr. 5. Comunicasi, per la immediata esecuzione, la seguente ordinanza di Polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta Provincia:

Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.

Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.

      Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in   

 attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente       attrezzati.»

Ogni tentativo di attenuare l’esistenza di responsabilità italiane nei confronti della Shoah è senza scampo pretestuoso. Solo tenendo fermissimo lo spartiacque tra chi era dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata si può sperare di fare davvero i conti con la propria storia nazionale. Certo, anche alcuni che erano dalla parte giusta hanno compiuto scelte sbagliate, né si può negare la buona fede personale di molti che si trovarono (più o meno caso) dalla parte sbagliata, ma tutto ciò non  sposta neppure di un millimetro i confini oggettivi che distinguono i due campi.

Piero Stefani

 

 

 

 

 

 

 

 




[1] Anticipo la seconda parte un articolo di prossima pubblicazione sulla Studi Fatti Ricerche (Sefer).

228 – A settanta anni dalle leggi razziali (2) – (07.12.08)ultima modifica: 2008-12-06T06:00:00+01:00da piero-stefani
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