85 – Dignitas (06.11.05)

Il pensiero della settimana, n. 85

 

Vi è un nucleo primo dell’esistenza umana che nessuno dovrebbe offendere o avvilire: la dignità. Ma dove si trova il chiodo infisso e saldo a cui appendere  questo irrinunciabile valore? La cultura dell’Occidente conosce da più di cinque secoli un tentativo famoso di cercarne il fondamento. Si tratta dell’Oratio di Pico della Mirandola, nota, in seguito, come Discorso sulla dignità dell’uomo. Ripercorrerne la prima pagina ci dice ancora qualcosa, anche se non tutto.

Il passo iniziale è di taglio narrativo. Il sommo Padre e divino architetto aveva già creato l’elevata sfera  celeste e l’infimo mondo terrestre, aveva già popolato il suolo di animali. Compiuta l’opera, l’artefice (artifex) desiderò che ci fosse qualcuno che sapesse amarne la bellezza e ammirarne la grandezza. Pico qui non aggiunge altro. Impossibile però non pensare che vi sia un sottotesto a sostegno della convinzione che sarebbe bastata quest’unica caratteristica perché la nuova creatura fosse a immagine di Dio. In virtù del desiderio divino spettava ora a lei far proprio il  ritornello ki tov («ecco era bello-buono») che scandisce l’operare del Dio che prima crea e poi vede la bontà e la bellezza di quanto da lui compiuto (cfr. Gen  1,5; cfr. 1,8.10.18.25.31). Il fatto che l’Adam (uomo) sia stata l’ultima creatura apparsa all’esistenza si giustifica sulla base di una diversità radicale e di una somiglianza profonda tra lui e il divino sommo Artefice. Giunge alla fine tanto perché, a differenza di Dio, non può creare alcunché partendo da nulla (egli non è co-creatore), quanto perché davanti a lui si squaderna il mondo di cui è in grado di vedere e celebrare la bellezza (egli è co-contemplatore).

Nella sua grandiosa opera creativa, prosegue l’Oratio, Dio aveva però esaurito tutti gli archetipi, tutto era stato distribuito tra gli ordini dai sommi ai medi, agli infimi. Infine l’ottimo operatore (opifex, nel caso dell’uomo non si usa più la parola artifex) stabilì che a colui che non si poteva dare nulla di proprio fosse comune quanto apparteneva ai singoli, altri esseri. Nasce così la creatura che nelle aule liceali si etichetta fatalmente con il nome di «microcosmo». Non bisogna fermarsi qui. Occorre comprendere che quest’ultimo essere dalla natura molteplice è anche  colui a cui, fin dal principio, Dio rivolge la propria parola e in ciò si trova un ulteriore, supremo sigillo di dignità. Il discorso divino afferma prima di tutto lo statuto composito della creatura umana. Questa caratteristica apre lo spazio alla libertà. La natura degli altri esseri è costretta entro assi rigidi e predefiniti; non così per l’uomo: «Nel tuo caso sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho posto, a decidere su di essa». La creatura umana in se stessa  non è né celeste, né terrestre, né mortale né immortale «perché  come libero, straordinario plasmatore e modellatore (plastes et fictor) di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito. Potrai degenerare negli esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori che sono divini».

«Plasmatore e modellatore». L’immagine richiama la seconda narrazione della creazione quando il Signore Dio, servendosi della polvere dell’adamà (suolo), foggia l’adam (uomo) (Gen 2,6-7). L’uomo è libero modellatore di se stesso anche perché è creatura fatta di polvere del suolo. È a somiglianza di Dio in quanto si plasma a partire dalla propria terrestrità. Il piolo a cui è infissa la sua dignità sta qui. Le conseguenze da trarre da tutto ciò vanno al di là di una generica celebrazione dell’umanesimo quattrocentesco. Il cuore della dignitas sta nel plasmare se stessi in un senso o in un altro. Dunque neppure quando si sceglie di scendere in basso essa è davvero annullata. Allorché abbrutisce se stessa la creatura umana non è un bruto: è  un uomo che ha scelto di abbassarsi fino a livello infimo. In quell’arbitrio balugina ancora la fiammella della sua dignità e si dischiude la possibilità che a quella caduta non sia concessa l’ultima parola. Sostenere che il peccatore non è il suo peccato e il colpevole non è la sua colpa è un modo diverso per riaffermare questa dignità che apre le porte al riscatto. Sostenere che la libertà è un rischio significa cogliere solo un aspetto, e non il più profondo, della condizione umana. Questo ammonimento educa la persona a temere la caduta,  ma  infiacchisce  anche in lui la fiducia di potersi rialzare. La composita natura umana esige invece che nulla sia conquistato o perduto in modo definitivo. Tutta la vita si è chiamati a plasmare se stessi, aggiungendo o togliendo, producendo o eliminando deformazioni.

La dignitas hominis non si fonda su una natura fissa. Grande visione che molto ha ancora da dirci in relazione al modo, spesso così letteralmente inumano, in cui si trattano i colpevoli. Tuttavia che ne è della dignità quando la creatura umana concepita ma non nata, venuta alla luce ma priva di ogni facoltà di discernimento, collocata dalla tecnica, forse per anni, in un tipo di vita che ci appare solo vegetativa non è nelle condizioni di modellare se stessa né per elevarsi, né per abbassarsi? Anche in questo caso rivolgersi alla parola «natura» concepita in termini fissi dice poco o nulla. Di contro bisogna invece affermare che, specie in quei casi, la dignità umana non può prescindere dalla volontà di prendersi cura di coloro che non possono essere liberi plasmatori di se stessi. Quello su cui Pico tace è divenuto per noi un obbligo da proclamare: la dignità umana non sta solo nel modellare se stessi, si trova anche e soprattutto nel sentirsi responsabili verso gli «altri», divenuti ormai «prossimo».

Piero Stefani

 

85 – Dignitas (06.11.05)ultima modifica: 2005-11-05T08:40:00+01:00da piero-stefani
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