84 – 2 novembre (30.10.05)

Il pensiero della settimana n. 84.

 

«Si rassomigliano come due gocce d’acqua». Eppure, come vuole il principio filosofico degli indiscernibili, se sono due e non una sola goccia non possono essere davvero identiche. Nel mondo fisico non vi è nulla che sia, in tutto e per tutto, uguale a qualcos’altro. Ciò vale anche per le culture. Vi sono forti somiglianze, niente è però privo di differenze. In ogni frammento si rispecchia un mondo. Non ci è dato di azzittire il rintocco della diversità. Perciò si prova un sottile fastidio di fronte alle citazioni sciorinate dagli intellettuali onnivori che accostano impudicamente frasi provenienti da ogni tempo e paese. Questa sensazione è motivata dal mancato rispetto di una regola di fondo: quelle frasi sono rivelatrici di culture differenti che esigono di essere comprese nella loro specificità. Solo un «lungo studio» e un «grande amore» consentono di gettare ponti interculturali capaci di resistere alle piene dell’autunno.

La voce della diversità non ammutolisce di fronte alle realtà che accomunano tutti i viventi. Non fanno eccezione neppure la nascita e la morte. Il modo di coglierle e di concepirle varia da cultura a cultura. Ciò non significa che non vi siano somiglianze. Né, qualora ci si tenga lontani da ogni appiattimento, è negata la possibilità di una comprensione reciproca.

«Come il pastore sospinge le vacche con il bastone verso il loro recinto, così
Vecchiaia e Morte sospingono la vita di coloro che respirano» (Dharma-pada, 135). Questa citazione, tratta da una delle più venerate opere buddhiste, ci suona prossima. Essa appare esprimere con rara efficacia il senso della vanitas avvertito da noi tutti. Eppure, quando riflettiamo con attenzione su quelle parole, il quadro si complica. Nel  paragone per noi sarebbe più facile individuare il simbolo della morte nel recinto piuttosto che nel bastone. Il morire è l’approdo ultimo verso cui ci spingono la vecchiaia, la malattia, la violenza o la fatalità. L’immagine del bastone spetterebbe piuttosto a questi ultimi termini. In un suo grande sonetto Giuseppe Gioacchino Belli parla di un caffettiere filosofo che, mentre osserva i grani che si accalcano e  si urtano per giungere all’ingranaggio che li renderà tutti polvere, pensa alla vita nella quale gli uomini si calpestano l’un l’altro al solo fine di cascare tutti, prima o poi, nella gola della morte. L’esito è un baratro nero, mentre è la forza della vita a far girare gli ingranaggi.  Non pochi credono che, dopo lo stritolamento della morte,  possa esserci un’altra vita: una parte di noi riesce a passare indenne oltre quella ferrea stretta.  Altri sperano fermamente che  la polvere possa di nuovo risorgere per essere ricomposta in unità. Tutti sono comunque propensi a ritenere che la morte ci si pari davanti: è arduo vederla come il bastone che sollecita il nostro incedere. Pensiamo così perché ci reputiamo un’unità irripetibile e non un aggregato effimero.

Non è piccola la differenza che divide la convinzione stando alla quale questo atomo psico-fisico cessa di esistere con la morte da quella che attribuisce ad esso un’esistenza nell’aldilà. La diversità sottende tuttavia qualcosa di comune: né sull’uno né sull’altro versante  si crede  in un infinito ciclo di rinascite che sospinge senza posa di esistenza in esistenza gli aggregati accorpati nel nostro attuale essere. Per il buddhismo la nostra labilità trova in questo temporaneo e doloroso accostamento il suo riscontro più vero. «Ogni cosa che ha la natura di sorgere, ha anche la natura di cessare» (Sutra della messa in moto della ruota del Dharma). Non si tratta di una frase difficile da comprendere. Essa però si completa solo se si è disposti ad aggiungere un «e viceversa»: tutto ciò che ha natura di cessare ha  anche la natura di sorgere. Il dolore sta in questo inesauribile vagare di recinto in recinto spinti dal bastone della vecchiaia e della morte. L’umanità, anzi i viventi tutti formano un’unica, immensa mandria i cui nuovi capi sostituiscono i precedenti. Pensiero profondo che coglie la preminenza della relazione rispetto alle nostre effimere esistenze individuali.

Al giorno d’oggi non pochi accusano la modernità di aver messo l’«io» al posto di «Dio». Ammesso e non concesso che sia così, si tratta pur sempre di una lotta di famiglia. Non si è di fronte davvero a due opposti. La più autentica alternativa è un’altra: affermare che né «Dio» né «io» sono entità uniche e singolari e sostenere che l’atto di comprendere tutto ciò costituisca il sentiero che conduce alla quiete e alla pace. Banalizzare la modernità è gioco superficiale che non porta a nulla. Altrettanto può dirsi per la volontà di consegnare all’insignificanza pensieri millenari di cui non è dato liberarsi ascrivendoli semplicemente alla sfera dell’errore. Credere oggi nel Dio di Abramo, nel Dio di Isacco e nel Dio di Giacobbe – Dio dei vivi e non dei morti (cfr. Mt 22,32) – comporta la rinuncia a erigere inutili e superficiali barriere difensive davanti all’una e all’altra sfida.

Piero Stefani

84 – 2 novembre (30.10.05)ultima modifica: 2005-10-29T08:45:00+02:00da piero-stefani
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