82 – I care (16.10.05)

Il pensiero della settimana, n. 82 

Esiste un antico contenzioso: sono diritto e legge a fondare la giustizia, o al contrario è un senso più profondo di giustizia – o di denuncia dell’ingiustizia – a poter giudicare diritto e legge? Se parliamo della presenza di un «senso» o di una «denuncia» l’accento si sposta sulla presenza della persona giusta. Si potrebbe affermare, secondo una scansione propria del pensiero greco, che si è giusti quando si pratica la giustizia. In tal caso però diviene prioritario saper stabilire in modo teorico cosa sia questa virtù. Il primato del sapere sfocia nella paralisi della definizione concettuale. Si può però percorrere anche l’itinerario inverso dichiarando che è la persona giusta a mostrare cosa è la giustizia. Se le cose stanno in questo modo quanto importa non è essere giusti, quel che conta è intraprendere la strada per diventarlo. Occorre prestar orecchio a un imperativo che ci sospinge.

La Bibbia dà un gran peso alla legge. Le è però noto anche un modo di essere giusti ancor più radicale. Nell’uno e nell’altro Testamento il nome simbolo di questa possibilità è quello di Abramo, l’uomo a cui è comandato di camminare davanti a Dio e di diventare integro (cfr. Gen 17, 1). Abramo diviene giusto di fronte al suo Signore anche e soprattutto quando denuncia l’ingiustizia. Allorché gli è palesata l’eventualità che Sodoma venga distrutta per la gravità delle colpe che vi si commettono, Abramo diviene difensore dei giusti e dell’esistenza di un senso di giustizia tanto forte da essere vincolante anche per Dio: «È una profanazione per te far morire il giusto (zaddiq) con l’empio; è una profanazione: forse che il giudice non farà giustizia (mishpat)?» (Gen 18,25).

Di quale sentenza si sta parlando? Di quella equa in base alla quale il colpevole è punito e  la persona onesta salvaguardata? In tal caso il cuore si acquieterebbe sostando al cospetto di due piatti di una bilancia in perfetto equilibrio e conformandosi alla massima, scritta più che rispettata, stando alla quale la legge è uguale per tutti. Per la nostra attuale convivenza civile sarebbe già molto, per Abramo è poca cosa. La presenza del giusto impone un’asimmetria: non è giusto che lo zaddiq muoia con l’empio, ma è giusto che il colpevole viva a motivo della persona giusta che gli abita accanto.  Non solo occorre evitare di strappare il grano assieme alla zizzania (Mt 13,24-30), bisogna altresì inculcare nel cereale e nel mietitore l’assillo di prendersi a cuore l’erbaccia. Ciò è assurdo per le regole vigenti in natura,  non lo è per l’animo umano colto nel vertice alto e raro delle sue potenzialità. Il giusto è colui che si preoccupa (I care) degli altri.  Ma i giusti sono sempre pochi. Abramo contende a lungo con Dio, fa progressivamente scendere la quota di  giusti richiesta per la salvezza di Sodoma da cinquanta a dieci. Si tratta però di un numero ancora troppo elevato (cfr. Gen 18,32-19,29). L’esito della disputa non salva la città. Tuttavia, anche se è stata incapace di salvare, la lotta abramica ha salvaguardato il senso dell’autentica giustizia e ha operato una ferma denuncia dell’ingiustizia.

«Giusti son due, e non vi son intesi» (Inferno, VI,73). Il celebre verso con cui Ciacco risponde alla domanda di Dante che chiede quanti zaddiqim (giusti) ci fossero a Firenze attesta una penuria nel numero e nel riconoscimento. Due è molto meno di dieci e per di più non sono né individuati, né ascoltati. Nulla, quindi, nella città riuscirà a controbilanciare l’incendio dei cuori innescato dalla superbia, dall’invidia e dall’avarizia. Firenze si autopunirà con sanguinose lotte intestine (cfr.  Inferno   VI,  64-75) e cadrà in rovina.

La presenza dei giusti è salvezza per le collettività. Giusto è innanzitutto colui che individua e denuncia l’ingiustizia. Per farlo non guarda in faccia a nessuno, neppure si trattasse di Dio. Punire, vale a dire ripagare la violenza con la violenza, ha in sé un grumo di contraddizioni. Lo zaddiq tenta di scongiurare questo esito. Eppure Sodoma sarà devastata e Firenze cadrà in sfacelo. L’esperienza diuturna offertaci dalla storia non è la totale assenza di persone giuste, quel che ci è sempre prospettato è la loro permanente scarsità, vale a dire la loro incapacità di impedire la distruzione. La radicale inadeguatezza di essere giusti si manifesta nella contemporanea presenza dell’irrinunciabilità e dell’insufficienza dell’I care. Questa situazione rende i giusti persone per eccellenza non autocentrate e sempre pronte ad attestare la propria insufficienza.

L’assillo dell’I care, il preoccuparsi per gli altri, è istanza più esigente ma non sostitutiva della regola aurea che impone di non fare agli altri quanto non vorresti che gli altri facciano a te. Questo principio è un correttivo necessario della volontà di prendersi cura. Sarebbe infatti presunzione e sbilanciamento inaccettabile se il giusto fosse colui che bada agli altri come una nutrice fa con i pargoli  a lei affidati. L’aiuto equivarrebbe allora a consegnare il proprio prossimo a una condizione di inferiorità. All’altra persona va invece sempre riconosciuta una dignità pari alla propria. Ciò vale per qualunque individuo anche quando costui viola la legge. Il prendersi cura va temperato con l’istanza dell’uguaglianza e viceversa.

Piero Stefani

82 – I care (16.10.05)ultima modifica: 2005-10-15T08:55:00+02:00da piero-stefani
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