La sofferenza dei bimbi e le manifestazioni di Dio (03.10.04)

Il pensiero della settimana (s.n.)

 

Settembre  apertosi con la strage di bambini a Beslan si chiude con quella di altri bambini a Baghdad, di adolescenti a Gaza, di altri piccoli in una vicina colonia ebraica. Il primo e il trenta di questo nono mese dell’anno formano in tal modo una tristissima cornice  di sofferenza. I bambini non patiscono solo nel nostro tempo e il loro dolore non è imputabile sempre e soltanto alla violenza omicida. Il mondo d’oggi, pur all’interno del cumulo delle sue contraddizioni, avverte però maggiormente  di altre epoche l’inaccettabilità e l’inspiegabilità di quel soffrire.

Le pagine che seguono sono la trascrizione di una relazione svolta nella primavera scorsa a Firenze nel corso di un convegno nazionale di Biblia. Il loro approccio indiretto testimonia l’incapacità di affrontare un tema che sfugge alla nostra capacità di comprensione e inquieta il nostro cuore. Alla fine si balbetta una speranza.

 

 

La sofferenza dei bimbi e le manifestazioni di Dio

 

Lo Spedale degli Innocenti è, da molti secoli, una delle grandi istituzioni fiorentine. Nel 1294 il Comune di Firenze affidò la tutela dei bambini abbandonati all’Arte della seta. Quest’ultima, divenuta ricca e potente, volle, all’inizio del XV sec., un ospedale che accogliesse «sub titulo Sanctae Mariae degli Innocenti» i fanciulli «qui vulgo dicitur gitarelli». La costruzione fu affidata a Filippo Brunelleschi a cui si deve anche il celebre, splendido portico. Il Consiglio del popolo approvò il progetto nell’ottobre del 1421 quando i lavori erano già iniziati da due anni. La solenne apertura ebbe luogo però solo nel gennaio del 1445. L’avvenimento fu vissuto da molti con emozionata partecipazione. In quella circostanza, per esempio, il ricco mercante Lapo di ser Piero Pacini, dopo aver donato tutti i suoi beni, divenne assieme alla moglie «oblato e commesso» della nuova istituzione. Pochi giorni dopo giunse la prima, piccola ospite, Agata Smeralda. A lei si aggiunsero ben presto molti altri. Lo Spedale cominciò a coinvolgere un gran numero di persone. Nel 1534 si trovavano in casa tra bimbi, uomini e donne 550 bocche, inoltre vi erano trenta balie, mentre ben 1036 «putti» si trovavano a balia fuori.

Verso la fine del Quattrocento il priore Giovanni Tesori commissionò a Domenico Ghirlandaio un’Adorazione dei Magi da porre sull’altare maggiore della chiesa (l’opera è attualmente conservata nel museo dello Spedale). Pittore e committente sono entrambi rappresentati nel quadro. Le caratteristiche più salienti della rappresentazione si trovano però in  altri particolari che la collegano in modo diretto all’istituzione che l’ha voluta. In particolare va notato che la capanna che accoglie il bambino è una struttura aperta;  dietro a essa si sta però erigendo un muretto di mattoni; a compiere l’opera sono due commessi laici dello Spedale. I Magi  sono a loro volta seguiti da un corteo di dignitari dell’Arte della seta. In primo piano è raffigurato un ‘anacronistico’ Giovanni Battista già adulto rivestito di pelli di cammello. Il santo, patrono della città, evidenzia la ‘fiorentinità’ dell’istituzione. La pala, gremita in primo piano di personaggi, ha come sfondo un placido paesaggio. Tuttavia in esso non mancano momenti drammatici. Vi è raffigurata infatti una strage degli Innocenti. Si scorge un gruppo di madri che fuggono disperate portando in braccio le proprie creature, alcuni bimbi sono però già caduti a terra: su tutti loro incombe la terribile minaccia delle spade sguainate brandite dai soldati. Due di questi piccoli, uccisi e santificati, sono però proposti, adoranti, in primo piano: uno affianca il Battista, l’altro è collocato in mezzo ai tre Magi. Alcuni richiami natalizi in alto, gli angeli che cantano «Gloria in excelsis Deo», e in fondo a destra, l’angelo che nella notte chiama i pastori, possono aver favorito l’addensarsi nel quadro di riferimenti a tutto il periodo che va dal Natale all’Epifania (la festa liturgica degli Innocenti cade il 28 dicembre). Tuttavia la scelta di porre in primo piano questi due bimbi dalle vesti finissime, in cui le tracce del sangue sul loro corpo sembrano quasi raddoppiare i bottoni di corallo dei loro abiti, più che un richiamo liturgico appare piuttosto esaltare la centralità dell’istituzione loro dedicata.

Tra i tanti personaggi, antichi e moderni, presenti in questa manifestazione del bambino Gesù sono i piccoli uccisi a essere i più simili al loro Signore. Gli Innocenti sono i veri protomartiri e come tali vanno accolti. La più autentica manifestazione dell’alto (Epifania) non è la stella (assente nel quadro del Ghirlandaio), sono i bambini assassinati e adoranti. L’astro è lontano e non patisce, i bimbi sono prossimi e soffrono. T. S. Eliot  colloca al centro del suo dramma Assassinio nella cattedrale una predica natalizia. In essa il protagonista, Thomas Becket, invita i propri ascoltatori a prestar mente al significato racchiuso nel fatto che la solennità del Natale sia subito seguita dalla festa di S. Stefano: la gioia della nascita di Gesù è increspata dal richiamo all’uccisione del primo martire. Questo accostamento vale a fortiori per i santi Innocenti raffigurati nell’Adorazione dei Magi. Rispetto alla celebrazione liturgica si tratta di una collocazione posticipata dal 28 dicembre al 6 gennaio; se confrontata con la narrazione evangelica si è invece di fronte a un anticipo: la strage  non poteva essere contemporanea alla visita dei Magi visto che ne fu una conseguenza diretta (cfr. Mt 2,13-18). Eppure, nonostante queste sfasature, percepiamo nettamente che si tratta dell’ambientazione più giusta. L’evento che conseguì dall’adorazione ne diviene il cuore. Gli Innocenti offrono la loro vita, un dono che vale assai più dell’oro, dell’incenso e della mirra. Il corpo del Risorto conserva le piaghe (Gv  20,24-9), l’Agnello dell’Apocalisse è ritto e sgozzato (Ap 5,6), allo stesso modo anche le  candide vesti dei due bimbi uccisi sono trapuntate da coralli di sangue.

«Il martire non desidera più nulla per se stesso, neppure la gloria del martirio» (T. S. Eliot). Gli Innocenti, a cui non fu dato di esprimere in alcun modo l’intenzionalità della loro offerta, realizzano oggettivamente questa condizione. Il loro soffrire è in se stesso dono completo che non ha bisogno di altro. Porre quelle figure sull’altar maggiore fu, con tutta evidenza, un modo per auspicare che i piccoli ricoverati nello Spedale  restino sempre innocenti e che il loro soffrire non sia estraneo all’epifania di Dio. Il Signore deve ricordarsene.

«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1; Mt 2,15). I due primi capitoli del vangelo di Matteo sono costruiti in base al ritornello: «questo avvenne perché si adempisse quanto scritto» (Mt 1,22; 2,5.15.18.23). Il riferimento alla parola profetica è  colto nella prospettiva della sua realizzazione. In questo contesto la citazione di Osea serve a sigillare la fuga in Egitto, paese in cui Giuseppe, il bambino e sua madre stettero fino alla morte di Erode, il responsabile della strage degli Innocenti (Mt 2,14-15). Per tale via Matteo tenta di inscrivere nella dinamica dell’esodo una vicenda  più prossima ad antiche storie patriarcali – in cui l’Egitto si presentava innanzitutto come un rifugio dalla carestia (cfr. per es. Gen  12, 10; 26,1; 42,1) – che  a Mosè e alla liberazione dalla schiavitù. Per Gesù la terra dove scorre il Nilo si presentò, in prima istanza, come luogo di rifugio e non come un paese in cui si patisce sotto il giogo del Faraone. Tuttavia proprio questa fuga è presentata dal Vangelo come causa indiretta dell’uccisione degli Innocenti (Mt 2,16-17). La salvezza dell’uno è motivo di  morte per gli altri. Il martirio dei bambini sta prima di ogni altra cosa in questo essere morti al posto di Gesù. In un certo senso si potrebbe sostenere che muoiono per Gesù e a causa sua, così come Gesù, secondo la visione cristiana, lo fa per noi e a causa nostra. In ciò si trova l’oggettività del loro martirio.

In Matteo il richiamo all’esodo si snoda secondo il  doppio  filone di tipo e antitipo: Faraone-Erode, Mosè-Gesù. Matteo non afferma mai apertis verbis che Gesù è il «nuovo Mosè»; nel suo Vangelo vi sono però una serie di inequivocabili allusioni alla precedente figura biblica. La prima tra esse sta nel il fatto che Erode e la strage degli Innocenti ripropongono la persecuzione con cui il Faraone aveva in animo di eliminare tutti i piccoli maschi ebrei (Es 1,22). Questo legame poi si rafforza se si prendono in considerazione le tradizioni giudaiche  stando alle quali l’intenzione originaria di Faraone sarebbe stata  di uccidere solo il piccolo ebreo (vale a dire il futuro Mosè) che oscure profezie avevano indicato come una minaccia per il suo trono. Non avendo potuto individuare con precisione il bambino, il signore dell’Egitto avrebbe esteso il decreto di strage a tutti i maschi (cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, II, 205). Questo intreccio fa sì che, in un certo senso, sia Mosè sia Gesù si presentino come superstiti: il primo salvato dalle acque (cfr.  Es 2,10), il secondo scampato attraverso la fuga. La grande strage di piccoli, un tempo (e anche oggi in certe parti del nostro triste pianeta)  imputabile alla mortalità infantile, rendeva ogni persona adulta quasi un superstite. Tuttavia appare evidente che in questo caso la sopravvivenza di Mosè e Gesù non si misura tanto con la natura quanto con il potere.

Si sarebbe tentati di affermare che il significato più intenso di queste due narrazioni bibliche si trova nella constatazione che i bimbi inermi sono le prime vittime della violenza. I piccoli Innocenti subirono la morte prima dei due anni  (Mt 2,16),  Gesù la incontrerà solamente nella sua età adulta. Tale pensiero è di certo  più ‘nostro’ che del mondo antico. Ciononostante questa virtualità racchiusa tra le pieghe del testo ci pare la più vera e parlante. I due episodi sembrano denunciare e svelare esattamente  l’idea che la violenta iniquità del potere si misura, in prima istanza, sulla sofferenza da esso arrecata ai piccoli. Inoltre suggeriscono che, quando le manifestazioni salvifiche di Dio, gli esodi e le epifanie risultano collegate al dolore dei bimbi, esse siano inevitabilmente consegnate all’incompletezza e alla parzialità. Quegli atti sono incapaci di redimere il mondo e la storia in maniera definitiva. In ogni caso ci sembra che Mosè e Gesù non avrebbero potuto essere liberatori del loro popolo se su di loro non fosse pesata almeno la minaccia che incombe sui bimbi, le prime vittime del potere (e, si sarebbe tentati di aggiungere, della natura). La condizione inerme dei neonati li espone alla prepotenza altrui, anche di chi, dopo averli chiamati all’essere, li abbandona non più nella ruota dello Spedale ma su panchine o prati di periferia.

Matteo commenta la strage con parole tratte dal libro di Geremia. Esse, nella loro collocazione originaria, sono dotate di un altro significato, infatti si riferiscono alla deportazione nel suo insieme e non specificatamente a quella dei bambini (Rachele, moglie di Giacobbe, è sepolta a Rama, luogo in cui venivano radunati coloro che dovevano essere deportati – cfr. Ger 40,1 – località poco distante da Gerusalemme e prossima a Efrata, vale a dire Betlemme): «Un grido si è udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2,18; Ger 31,15). Colta in questo contesto la frase biblica suona agli orecchi di noi moderni come un profondo monito contro le troppo facili consolazioni (o meglio pseudo-consolazioni) di cui sono ‘specialisti’ gli esponenti dei vari apparati religiosi: non  vuole essere consolata perché non sono più. Ogni perdita, specie quelle di vite appena sbocciate, ha  in se stessa qualcosa di irreparabile. La speranza e la convinzione che possono ancora essere ospitate nei nostri cuori è che Dio non sia estraneo a quel dolore che umanamente appare impossibile da ricomporre: loro non sono più.

È tipico del Midrash (commento giudaico alle Scritture) rendere una semplice contiguità del testo biblico  sorgente di interpretazioni profondissime. Nel rotolo delle Lamentazioni si legge: «i suoi bambini sono stati condotti in schiavitù» (Lam 1,5) e subito dopo: «Dalla figlia Sion si è allontanato lo splendore» (Lam 1,6). Da questo semplice accostamento scaturisce una toccante lettura: «La Shekhinà [presenza di Dio] andò in esilio con il popolo solo dopo che furono deportati i bambini» (Lamentazioni Rabbà, 1,23). Per il Signore d’Israele che si fa presente nella sua Shekhinà la condivisione è una realtà ancor più preziosa della salvezza. Quest’ultima ci può  essere  soltanto perché c’è la prima. Come dice Lutero «se Dio pensasse solo a se stesso sarebbe un ente miserrimo» e il primo modo in cui si ha cuore gli altri è di cercare di prendere  parte  alle loro sofferenze. Questo dice la divina presenza che segue i bambini nell’esilio e questo dice Gesù del Ghirlandaio che volle tra i suoi adoratori i  due piccoli dalle vesti trapuntate da coralli di sangue

Piero Stefani

 

 

 

 

 

La sofferenza dei bimbi e le manifestazioni di Dio (03.10.04)ultima modifica: 2004-10-02T10:45:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo