E io ti benedirò (1° gennaio 2018)

Maria Santissima Madre di Dio
Nm 6,22-27; Sal 67 (66); Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

E io li benedirò

Nella liturgia odierna si proclama la benedizione sacerdotale (Nm 6,22-27). Attraverso essa i discendenti di Aronne benedicono il popolo d’Israele. Il testo del libro dei Numeri ci dice che l’azione sacerdotale non ha valore in se stessa, né è dotata di alcun potere intrinseco. La sua forza riposa sul fatto di esprimere l’obbedienza alla parola che viene dal Signore. Tutto inizia dall’ascolto prestato al comando di Dio rivolto a Mosè e dilatato verso i sacerdoti: «Il Signore disse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli [i sacerdoti]…”». I discendenti di Aronne sono posti in mezzo, tra la parola del Signore, giunta loro grazie a Mosè, e i figli d’Israele. Il sacerdozio non ha significato senza ascolto obbediente e senza essere posto al servizio della comunità. A convocare l’assemblea è la parola. Senza ascolto obbediente sacerdozio e benedizione perdono consistenza.
La mediazione sacerdotale è paragonabile al fermento catalitico: consente la reazione ma non vi partecipa in modo diretto: «Così benedirete i figli d’Israele, direte loro: il Signore ti benedica e ti custodisca» (Nm 6, 23-24). La benedizione del sacerdote sta nel chiedere al Signore di benedire e custodire il suo popolo. La benedizione manifesta l’obbligo di custodire assunto dal Signore nei confronti dei propri figli. La benedizione sacerdotale chiama in causa in prima istanza Dio: «Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6, 26-27). In ebraico la presenza del termine «io» (’ani) è enfatica, se lo si introduce è per rimarcare l’azione che il Signore arroga a sé in prima persona. I commenti rabbinici sono in proposito del tutto espliciti: «“E Io li benedirò”. Queste parole sono aggiunte perché i figli d’Israele non pensino che le loro benedizioni dipendano dai loro sacerdoti; allo stesso modo i sacerdoti non debbono dire: “Siamo noi a benedire Israele”» (Sifre Numeri, Naso, par. 43).
La cornice della benedizione allude a una dimensione plurale: inizia affermando «Così benedirete gli Israeliti» (Nm 6,23) e si conchiude con la promessa divina «e io li benedirò» (Nm 6,27). Ci troviamo nell’ambito di una comunità e non di individui isolati. Il corpus centrale del testo, però, è riferito a un singolare di seconda persona: «Il Signore ti benedica e ti custodisca …». La benedizione sta nel fatto che il Signore ti riconosce come un soggetto davanti a lui e nel contempo come parte di una comunità. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe non benedice nazioni, popoli, patrie o bandiere. In questo passo non lo fa neppure in relazione alla comunità d’Israele nel suo insieme. Non benedice però nemmeno il singolo o l’individuo in quanto tale. Benedice il soggetto colto come membro di una comunità. Ben lo comprese Francesco d’Assisi quando, dopo aver trascritto la benedizione del libro dei Numeri, concluse con queste parole «il Signore benedica te, Frate Leone» e vi aggiunse la firma e la tau. Con il «poverello di Assisi» cadono i recinti del sacro ed egli, semplice diacono, fa proprie le parole riservate ai sacerdoti ebrei. Si tratta di un mutamento radicale sigillato dal segno – la tau – che allude in maniera esplicita alla croce. Lo spirito di Francesco rimane però quello biblico: si benedice chi appartiene a un gruppo (frate), ma ci si rivolge a lui come persona (Leone). In questo concorde incontro tra individui e comunità si trova la pace: «La benedizione sacerdotale racchiude il compendio della benedizione divina. E la sua conclusione è la pace. Non vi è benedizione che superi la pace. E non vi sarebbe alcuna benedizione di Dio per l’uomo, se egli non avesse posto loro nel cuore la pace» (Hermann Cohen).

E io ti benedirò (1° gennaio 2018)ultima modifica: 2017-12-30T11:55:00+01:00da piero-stefani
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