XXVIII – L’abito nuziale (Tempo Ord., – Anno A –

Domenica XXVIII del tempo ordinario – ANNO A –

Is 25,6-10; Sal 22(21); Fil 4,12-14, 19-20; Mt 22,1-14

L’abito nuziale

 

  La parabola degli invitati alle nozze (Mt 22,1-14 ) è posta da Matteo subito dopo quella dei cattivi contadini che non restituiscono al padrone i frutti della vigna (Mt 21,33-46). La dinamica delle due scene è antitetica: nella prima si impedisce di entrare nella seconda ci si rifiuta di farlo; il senso dei due brani è però lo stesso: respingere il regno dei cieli (ora simboleggiato dal banchetto di nozze del figlio). Lo si può attuare sia con la violenza omicida sia con l’omissione (nella seconda parabola, nonostante le opere violente in esse descritte, a essere messo in evidenza è soprattutto il rifiuto). «Non fare» non è meno grave del «compiere il male». Non molte pagine dopo Matteo lo ribadirà con la grande scena del giudizio in cui si è condannati non già perché si è attuato il male ma perché ci si è astenuti dal fare il bene («avevo fame e non mi avete dato da mangiare…»  – cf. Mt 25, 31-46).

   A differenza di Luca (14,16-24) (che peraltro pone la parabola in un altro contesto), Matteo aggiunge una parte finale relativa a chi non si comporta in conformità all’invito da lui accettato. Anche qui si pone in rilievo un’omissione: non aver indossato l’abito nuziale (Mt 22,12). In virtù della sua collocazione, la parte conclusiva diviene lo snodo cruciale per comprendere la parabola. L’accoglimento implica responsabilità; accettare l’invito comporta indossare l’abito di nozze. Dopo di allora il giudizio di Dio si fa più esigente. Per essere sicuri di aver parte alla salvezza non basta dire «gli altri hanno rifiutato, mentre noi siamo entrati». Una volta preso posto nella sala occorre comportarsi come richiesto dal luogo in cui ci si trova.

Rispetto al popolo di Israele si legge: «Soltanto voi ho conosciuto tra tutte le stirpi della terra; perciò vi farò scontare tutte le vostre colpe» (Am 3,2). Dal canto suo rivolgendosi alla comunità di Corinto, Paolo rievoca alcune infedeltà compiute dal popolo ebraico nel suo soggiorno nel deserto. Lo fa per parlare non del passato ma del presente: «Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alcuni di loro (…) Non mormorate come mormorano alcuni di loro (…) Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10, 9-12). L’accento batte su chi è dentro e non già su coloro che sono restati fuori. Nella prima lettera di Pietro si legge che il giudizio inizia a partire dalla «casa di Dio» (1Pt 4,17). Nella seconda lettera di Pietro il linguaggio diventa ancora più aspro: se, dopo essere fuggiti alla corruzioni del mondo, si resta di nuovo invischiati e vinti da esse (si pensi, nel senso alto e grave del termine, alle mondanità che albergano nella Chiesa) la condizione diviene peggiore di quella di quando si ignorava «la via della giustizia» (2Pt 2,21-22).

La parabola evangelica ricorre a un linguaggio di inusitata durezza per indicare la sorte di coloro che hanno respinto l’invito (Mt 22,6), tuttavia la sua conclusione è  incentrata su chi è privo della veste nuziale. In parole semplici riguarda «noi» non gli «altri». Il regno dei cieli è raffigurato con l’immagine del banchetto di nozze del figlio. Se si vive la festa con gli abiti di tutti i giorni si nega coi fatti la novità del regno. Ci si comporta come chi sta fuori e si continua a essere presi dalle faccende legate alla vita di tutti i giorni curandosi del proprio campo e dei propri affari. La parabola ci riguarda. Per la misericordia di Dio, anche per chi è privo dell’abito nuziale può però sperare di non essere gettato fuori nelle tenebre dove c’è pianto e stridore di denti  (Mt 22,13).

 

XXVIII – L’abito nuziale (Tempo Ord., – Anno A –ultima modifica: 2017-10-13T23:09:57+02:00da piero-stefani
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