621. Il teatro delle religioni (02.07.2017)

Pensiero  n. 621

Il teatro delle religioni

Cosa avviene quando ai rappresentanti delle religioni negli incontri è chiesto loro di rappresentare le comunità di appartenenza? Ognuno parla in quanto cattolico, ortodosso, protestante, ebreo, musulmano, buddhista e via discorrendo. Le tavole rotonde in questi casi si trasformano, per logica interna, in palcoscenici in cui i relatori non sono fino in fondo loro stessi. Avviene così proprio perché essi sono chiamati dalle circostanze a rappresentare la propria comunità religiosa. Ognuno scambia le battute con gli altri lungo un copione in buona misura già noto. Le sorprese non sono all’ordine del giorno. Le virtù prevalgono sui vizi. Tutte le religioni sono contro la violenza, tutte sono a favore della pace, l’amore del prossimo è un valore universale, l’impegno per il rispetto del creato è inscritto nel loro DNA. L’omogeneo prevale sull’eterogeneo. Non affiorano contrasti o litigi. Tutto bene; tuttavia, proprio come avviene negli spettacoli edificanti, si ha l’impressione di mordere poco la realtà. Fuori del teatro per le strade e per le piazze la vita scorre come sempre.

   Ci sono  rappresentazioni teatrali improntate al realismo nelle quali ai personaggi non è chiesto di essere simboli di vizi o di virtù. Vi sono personaggi ambivalenti che si muovono su più registri, a volte persino contraddittori. Non partono da certezze granitiche e quando si incontrano mutano in maniera sensibile atteggiamenti e comportamenti. Non di rado mettono in qualche modo in discussione le loro appartenenze di partenza. Come avvenne per Romeo e per Giulietta possono, per esempio, innamorarsi reciprocamente anche se appartengono a fazioni nemiche. I legami personali prevalgono allora sulle rispettive origini. I protagonisti non sono rappresentanti dei loro contesti di provenienza. Questo tipo di incontri comporta sempre tensioni con gli ambienti circostanti, specie nel caso in cui essi esprimono casate, etnie, nazioni o religioni contrapposte. Oggi nella vita questi fenomeni capitano più di frequente che a teatro. Sono incontri che mettono in discussione molti confini, varie regole, parecchie certezze.

   Cosa significano le appartenenze religiose (o non religiose) nell’esistenza di ciascuno quando non si è rappresentanti che di se stessi? L’interrogativo, come è facile comprendere, assume un peso particolarmente rilevante nel caso dei matrimoni misti; non è però il solo esempio. Per rendersene conto basta pensare ai rapporti intergenerazionali e a quello che passa (o non passa) tra genitori e figli, tra nonni e nipoti rispetto alle convinzioni (o non convinzioni) religiose. Eppure in queste circostanze tra coniugi, tra le generazioni e più a vasto raggio tra persone che vivono le une accanto alle altre, che si incontrano per motivi di lavoro, di studio e così via si instaurano legami effettivi o affettivi che ridimensionano il ruolo da attribuire alle rispettive appartenenze religiose. In queste circostanze i tanto auspicati ponti prendono il posto dei muri, tuttavia ciò non sempre appiana le tensioni tra le due sponde che il metaforico manufatto dovrebbe collegare. Le convinzioni religiose restano; esse sono presenti nel cuore di ciascuno, senza assurgere quasi mai al ruolo di linguaggio diretto. Qui non si opera nella finzione, ognuno è se stesso, ma proprio per questo egli non sa bene che ruolo  relazionale affidare alla proprie convinzioni religiose profonde. Esse ci sono e operano, ma rimangono per così dire per lo più dietro le quinte. D’altra parte quel legame interpersonale non di rado suscita disagio, sospetto per non dire ostilità nelle comunità religiose d’origine.

   Qual è allora il linguaggio comune? Il senso di umanità, l’affetto o l’innamoramento, il volersi bene, la solidarietà, il rispetto, la dignità, la sete di giustizia, l’impegno politico e sociale, la compassione, i bisogni reciproci, la gioia, la festa, la convivialità, l’umorismo. Tutte questi modalità di comunicazione, (assieme a varie altre) hanno voce in capitolo. I fattori ora indicati sono però soprattutto interpersonali; cosa dire per la sfera pubblica? Una conclusione da trarre è la seguente: per quest’ultima la libertà religiosa è un valore più alto di quello da attribuire alle singole appartenenze religiose. Molte religioni accettano la divisione delle sfere di competenza, in relazione alla dimensione pubblica accolgono perciò il primato della libertà di scelta, altre comunità fanno invece fatica a far propria questa visione. Per tutti relativizzare all’esterno quanto al proprio interno si tende a presentare come assoluto non è comunque mai un’operazione indolore.

Piero Stefani                

 

621. Il teatro delle religioni (02.07.2017)ultima modifica: 2017-07-02T19:39:29+02:00da piero-stefani
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