614 – Lei ed egli (14.05.2017)

Il pensiero della settimana, n. 614

Lei ed egli [i]

    Usare il “Lei” significa non privare il linguaggio del senso del pudore. Così avviene quando questo modo di esprimersi (peraltro non presente in tutte lingue) è fedele a se stesso. Mario Rigoni Stern ripensò più volte a un episodio da lui raccontato nel Sergente nella neve. Era in fuga, spaesato, la fame e il freddo non gli davano tregua. Ecco un’isba; entra c’erano soldati sovietici e cibo caldo. Lo condivisero. Perché non mi hanno sparato? Si chiese anni dopo. Si rispose: perché ho bussato. Se non l’avesse fatto una raffica l’avrebbe colpito. Nella comunicazione linguistica il “Lei” equivale a quel bussare. Un’irruzione troppo frettolosa uccide le potenzialità contenute nel “tu”. Anche nel linguaggio il pudore è una tutela dell’intimità, una relazione, quest’ultima,  che diviene autentica solo se protetta. Il precipitarsi dentro la casa altrui è una mancanza di rispetto che nella vita e nella lingua ostacola l’ospitalità.

    Bussate e vi sarà aperto? Non sempre ciò avviene; a volte la porta resta sprangata. In questo caso il “Lei” è – o era – una forma per tenere le distanze. Sono state molte le nuore costrette a dare sempre del “Lei” alle proprie suocere, situazione asimmetrica specie quando la suocera dava del “tu” alla propria nuora, spesso qualificata solo come moglie di suo figlio, vale a dire come un “ella”. In questo caso il “lei” era sigillo di distanza e non già di rispetto. Ricorrere alla terza persona per parlare con chi ci sta di fronte a volte significa  essere costretti a stare sine die in anticamera.

   Sul piano del comportamento un procedimento analogo lo si ha quando si è di fronte un’altra persona: può restare per sempre “altra”, oppure può diventare prossimo. L’evangelica parabola del «buon samaritano» (Luca 10,29-37) mette in campo le due alternative. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, incappò nei briganti e giacque mezzo morto sul ciglio della strada. Passò un sacerdote, lo seguì un levita; per entrambi lo sventurato rimase un “egli”, un “altro”; lo guardarono allo stesso modo di come si getta un occhio a un cespuglio. Il samaritano si fermò e gli prestò soccorso, per lui l’“altro” divenne prossimo, un termine identificato sempre dall’aggettivo “tuo” e non con“suo”. Tuttavia, a ben guardare, l’autentica vicinanza non fu raggiunta neppure allora. La parabola ci dice che il samaritano parlò con un albergatore ma non riporta alcun dialogo avvenuto tra lui e il malcapitato. Per certi versi l’uomo ferito rimane ancora un “egli”. Visto sotto questa luce, forse un po’ troppo sospettosa, il buon samaritano sembra anticipare comportamenti presenti in non pochi degli odierni operatori sanitari. Troppo spesso in quegli ambiti si oscilla tra modalità di intervento su pazienti considerati come puri «egli» o «ella» e un rapporto diretto che usa il nome proprio e ricorre immediatamente a un “tu” ignaro del pudore tipico del “Lei”.

Piero Stefani

131 [i] Testo uscito su “La Lettura” del Corriere della Sera del 7 maggio 2017

614 – Lei ed egli (14.05.2017)ultima modifica: 2017-05-13T08:00:25+02:00da piero-stefani
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