601 – La conversione dell’Innominato (parte II)

Il pensiero della settimana, n. 601

La conversione dell’Innominato
                                                        (parte II)

  Il mutamento non già della destra dell’Altissimo ma dell’animo dell’Innominato si compie attraverso due fondamentali apporti che vengono a lui dall’esterno. Il sottotesto biblico più calzante è, con ogni probabilità, il Miserere (Sal 51 [50]). Si tenga conto della sovrascritta: «Quando il profeta Natan andò da lui che era andato con Betsabea». Il pentimento del re Davide è innescato da una dinamica che viene dal di fuori. Lo fa attraverso la voce del profeta che gli racconta la parabola del ricco, prepotente signore che sottrae al povero la sua unica, amatissima pecorella. Davide si sdegna e a questo punto Natan può dirgli «quell’uomo sei tu» (cf. 2 Sam 12,1-15).

   Perché l’inquietudine si trasformasse in pentimento occorreva un incontro. Il primo è quello con Lucia. Spinto dalla curiosità suscitata in lui dall’inatteso turbamento del Nibbio, l’Innominato va a trovarla e ne resta a sua volta colpito. A partire dalla sua spaurita e indifesa condizione, Lucia pronuncia una frase ripetendola per due volte e questa viene rammemorata anche dall’Innominato nel corso della sua notte: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia» (cfr. cap XXI). Il detto è incentrato su tre parole chiave: «Dio, perdono, misericordia». Per ora esse non sono risolutive. Anzi la prima reazione da parte dell’Innominato è che mettere in campo sempre Dio è proprio di coloro che non sanno difendersi da soli: «“Cosa pretendete con questa vostra parola? Di farmi…?” e lasciò la frase a mezzo». Il passaggio dall’inquietudine al pentimento non è ancora avvenuto. Quando avverrà la dinamica non sarà esattamente quella indicata da Lucia: non saranno le opere di misericordia a meritare il perdono.

    L’incontro con Lucia precede la fatidica notte nel corso della quale l’Innominato è lì lì per attuare un suicidio evitato solo per il non nobile motivo di un’immaginazione proiettata in avanti che coglie le supposte reazioni della gente davanti alla notizia della sua morte. Perché il gran passo fosse compiuto bisognava che il mattino subentrato a quella notte custodisse nel suo seno un segno. Così fu. Esso fu rappresentato non da Federigo, ma dal fatto che la sua visita pastorale inducesse tanti a compiere lunghi percorsi per «andare a vedere quell’uomo». A mettere in moto l’Innominato è un andare, non un ritornare. Anche lui perciò va (cfr. cap. XXII).

   La pecorella smarrita va dal pastore senza sapere bene cosa l’attende. L’incontro gli svelerà Dio, la misericordia e il perdono. Dio lo si raggiunge attraverso l’esperienza interiore e non mediante un approccio empirico esteriore: «“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?” “Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo vi attira…». Siamo di fronte a due tensioni antitetiche: l’essere oppressi dalla colpa e l’essere abbracciati dalla consolazione di Dio. La svolta decisiva che sfocia nella conversione è quando l’Innominato sperimenta in proprio questa simultanea compresenza e lo fa attraverso una esplicita allusione al Miserere: «Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono, le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provato in tutta la mia orribile vita» (cfr. cap. XXIII). Non è unicamente per ragioni di credibilità narrativa che in bocca dell’Innominato non è stata messa una citazione biblica. Il motivo è più profondo: egli sta vivendo in proprio l’esperienza che il Salmo descrive parlando di un peccato che sta sempre davanti e di una gioia e letizia provata da ossa spezzate (cfr. Sal 51, 5.10). Non è la Bibbia a illuminare la vita;  è Dio che sta trasformando una vita facendola partecipe di quanto è affermato anche dal Salmo.

  Il primo frutto della conversione è detto subito dopo ed è la liberazione di Lucia: «Beato voi! Questo è il pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio v’ha benedetto!». Assai più vero del detto che «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia» è la convinzione secondo cui l’atto di misericordia sia una prima, diretta conseguenza del perdono di Dio. Federigo non è come Natan. L’antico profeta doveva annunciare innanzitutto il peccato e la punizione e sono le sue parole a indurre Davide al pentimento (2 Sam 12, 7-13); il cardinale invece attesta il primato del perdono a un Innominato già consapevole della propria colpa ma ancora privo di speranza. L’atto di misericordia compiuto dal colpevole perdonato è il primo frutto di questo annuncio.

   Il primato della misericordia che viene da Dio esige da parte del perdonato di compiere atti misericordiosi  nei confronti del suo prossimo. Tuttavia, per capire la benedizione connessa a quell’atto, occorre compiere un piccolo passo indietro. La prima risposta di Federigo all’esperienza del perdono di Dio avuta dall’Innominato è che quest’ultimo avrà «tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere». La successione attesta l’impossibilità umana di porre rimedio a tutto il male commesso. A saperlo per primo è proprio colui che si pente. L’Innominato, a cui è tutt’altro che ignoto l’omicidio, ne è ben consapevole: «quante, quante … cose, le quali non potrò se non piangere!». Ecco perché la presenza di una scelleratezza  che è subito possibile «rompere a mezzo (…) disfare e riparare» diventa pegno di non essere soffocati dalla colpe commesse anche se ciò non pone fine al tempo delle lacrime.

Piero Stefani

 

601 – La conversione dell’Innominato (parte II)ultima modifica: 2017-02-11T08:02:28+01:00da piero-stefani
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