573 – Il tuo povero (19.06.2016)

Il pensiero della settimana, n. 573

 Il tuo povero

        «I poveri infatti li avete sempre con voi ma non sempre avete me» (Gv 12,8). Così si conclude la risposta di Gesù  rivolta a Giuda che protestava contro lo spreco di nardo, di gran valore, versato da Maria sui piedi di Gesù. Nel corso dei secoli quella sentenza è stata prospettata come giustificazione di visioni che dichiaravano impossibile estirpare la povertà dalla faccia della terra e bollavano come vana la speranza nell’instaurazione di un’autentica giustizia sociale. Che si tratti di un uso improprio è fuori discussione; tuttavia quale significato allora attribuire a quella frase? E cosa c’è alle sue spalle? Dedicare qualche riga a questa indagine è operazione consegnata non solo alla filologia.
     Il detto evangelico rimanda a un passo del Deuteronomio dedicato all’anno sabbatico: «Poiché il povero (‛evyón) non mancherà in mezzo alla terra, perciò Io ti ordino: “apri, apri la tua mano al tuo fratello, al tuo indigente (’anaw), al tuo povero nella tua terra” » (Dt 15,11). Quanto impressiona in questo versetto è soprattutto il ritorno incalzante dell’aggettivo «tuo». In senso stretto, nel contesto dell’anno sabbatico, è fuori discussione che con quel «tuo»  ci si riferisca a un altro ebreo (Dt 15, 1-11); tuttavia non è improprio attribuire a esso anche una valenza più estesa.
     «Tuo» comporta una chiamata imperativa alla responsabilità: «apri, apri la tua mano». La mano è tua, non sua, non loro. Nessuno la deve sostituire. Non è il pugno chiuso che rinserra quanto sottratto ad altri e tanto meno uno che percuote; è la mano aperta che dà e incontra un’altra mano. Il pugno, quando colpisce, deve stare in guarda per evitare di scontrarsi con un altro pugno, la mano aperta si rivolge invece a un’ altra mano.
     «Il tuo fratello, povero, indigente»; di nuovo «tuo»; non già suo o loro; è il povero che ti sta davanti, rispetto al quale ti è comandato di entrare in relazione, è tuo e non di altri. Vale a dire diviene «tuo» in virtù della relazione che sei chiamato a instaurare, in caso contrario egli rimane irrimediabilmente un estraneo. In questa luce la parabola del «buon Samaritano» (Lc 10, 29-37) resta paradigmatica.
     «Tua terra». Quale «terra»? Nel contesto del Deuteronomio è la terra d’Israele. Ma essa è «tua» soltanto perché è «il Signore tuo Dio» a dartela. Non sei stato tu a conquistarla, non sei tu a possederla (Dt 15,7); la terra è data dal Signore come «possesso ereditario». È dunque una eredità: ne trai beneficio per quel che sei non già per quel che fai; tuttavia quel che fai può fartela perdere. È proprio come avviene per le eredità.  Il libro del Levitico ha al riguardo parole dure: se non se ne è degni la terra d’Israele vomita i suoi abitanti (Lv 18,28). Vivere in termini laici la propria terra, qualunque essa sia, come eredità significa assumere sotto la luce della responsabilità il dato casuale di essere nati in una parte del mondo privilegiata. La terra è «tua» anche perché tu sei qui e non altrove. Quella terra non ti consente “alibi”, parola che vuol dire appunto essere altrove. Il povero è sulla tua terra, non la sua o la loro.
     «Tuo Dio, tuo fratello, tuo povero, tua terra» si è sempre di fronte a un «tu» che ti interpella e ti comanda.

Piero Stefani

 

573 – Il tuo povero (19.06.2016)ultima modifica: 2016-06-18T09:06:55+02:00da piero-stefani
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