470_Un Dio punitore? (23.03.2014)

Il pensiero della settimana, n. 470

Un Dio punitore?

    Un secolo fa, l’8 settembre  1914, appena due giorni dopo la sua incoronazione, Benedetto XV emanò un’accorata esortazione alla pace. La guerra, iniziata da poche settimane, aveva già fatto versare molto sangue cristiano. Siamo dunque in un’epoca ben anteriore alla lettera del 1 agosto del 1917, nota a causa dell’espressione che definiva un’«inutile strage» quella immane guerra. In quel precoce intervento, la preoccupazione del papa per la pace era assai viva. Forte era l’invito alla preghiera fervorosa perché giungesse il tempo in cui i capi delle nazioni arrivassero a stringersi la mano. La guerra doveva finire al più preso. Eppure  nell’esortazione Ubi primum in beati si leggono anche passaggi come il seguente: «Mentre, pertanto, Noi stessi, levando gli occhi e le mani al cielo, non cesseremo di supplicare l’Altissimo, esortiamo e scongiuriamo, come fece vivamente lo stesso Nostro predecessore [Pio X], tutti i figli della Chiesa, specialmente quelli che sono ministri del Signore, affinché proseguano, insistano, si sforzino, sia privatamente con umili loro preghiere, sia pubblicamente con solenni suppliche, a implorare da Dio, arbitro e signore di tutte le cose, che memore della sua misericordia, deponga questo “flagello dell’ira sua”, col quale fa giustizia dei peccati delle nazioni».[1] Quest’ultima affermazione va   considerata un’espressione stereotipata; ma ciò non fa che confermare quanto essa fosse radicata e data quasi per ovvia. Resta comunque evidente il dramma connesso a essere costretti a giudicare un male da cui si chiede di essere liberati quanto, per altri versi, è ritenuto esercizio della volontà punitrice di Dio.

È passato un secolo, e, se le preoccupazioni espresse nella prima parte del passo citato  sono ancora le nostre, il contenuto della seconda parte appare tanto lontano da far pensare a un’altra religione. L’uso della violenza esercitata in nome di Dio è una realtà che ha trovato riscontri in anni recenti. Assolutamente remota appare invece una lettura teologica della storia che intendeva le guerre come forme di punizione volute da Dio a causa dei peccati dei popoli. Eppure è fuor di dubbio che l’ interpretazione abbia precisi antecedenti biblici. Tutta la cosiddetta storiografia deuteronomistica ragionava infatti in questo modo. D’altra parte è forse possibile pensare a una signoria divina sulla storia senza proporre una qualche forma di lettura teologica delle guerre? Chi potrà mai sostenere che nella vicenda umana le guerre rappresentino solo una folle e saltuaria eccezione? L’espressione «ira di Dio» un tempo era lungi dall’essere assunta solo come un modo di dire più o meno scherzoso. Al contrario ci si appellava ad essa per cercare di interpretare effettivamente l’accaduto.

   Nella comune precomprensione storiografica la pace di Vestfalia del 1648 pose fine a una certa modalità di condurre le guerre di religione. L’eccesso della violenza esercitata aveva indotto a dar spazio alla diplomazia abbandonando la precomprensione che giudicava l’avversario un nemico assoluto. Mutatis mutandis, nella seconda metà del Novecento sul piano teologico sembra aver avuto luogo una dinamica paragonabile a quella ora evocata. A seguito delle due guerre mondiali, dei totalitarismi e dell’angoscia per un possibile conflitto nucleare, non si è più nelle condizioni di affermare che Dio si serve delle guerre. Come nel XVII secolo anche nel XX è stato l’eccesso di violenza a porre la parola fine a un determinato modo di leggere la storia. 

La rinuncia definitiva a giustificare la violenza in nome di Dio vi è una quantità enorme di violenza. Questa precondizione  getta ombre non lievi sul prezzo che si è dovuto pagare al fine di riacquistare un’immagine più evangelica di Dio. La constatazione sembra esigere un approccio più esigente di una sorvegliata ermeneutica della tradizione. L’incapacità di affermare il volto punitivo di Dio costituisce  una rottura epocale che comporta una rilettura radicalmente diversa sia di questo mondo sia dell’aldilà. Quanto per secoli è stato creduto ora appare incredibile. Guerre volute da Dio e inferni eterni non sono più accolti come forme di esercizio della signoria di Dio.  Ci si può chiedere: questa visione del tutto differente di Dio costituisce davvero una comprensione più profonda della tradizione o è dovuta soprattutto a un nostro bisogno?         

    Gianfranco Bonola chiude un suo recente articolo dedicato a discutere le tesi di Jan Assmann relative a rivelazione, monoteismo e violenza con queste parole: «E siccome oggi la posizione più progredita in termini morali è considerata quella di chi rifugge dalla violenza nei suoi rapporti interpersonali come pure nei confronti della natura, pare che ciò non possa rimanere senza effetti nei confronti della concezione della divinità. Quasi che il monito biblico: “siate santi, come io sono santo” (Lv 19,2; 20,7; 20,26), da esortazione rivolta agli uomini, si rovesciasse in un’esigenza posta alla figura divina».[2] Il linguaggio scelto da Bonola è volutamente paradossale; tuttavia la teologia non dovrebbe sottovalutare simili sfide. Esse, sul piano del pensiero, sono più penetranti di quelle lanciate dal fondamentalismo. Non è dato di prendere alla leggera l’ipotesi stando alla quale la visione di un Dio incapace di esercitare la violenza sia frutto, almeno in parte, della proiezione che noi facciamo in lui dei nostri bisogni. Occorre sicuramente purificare l’immagine di Dio da incrostazioni violente, senza però dimenticare il rischio di cadere, inconsapevolmente, in operazioni che, per quanto di segno opposto, sono anch’esse non esenti da ambiguità.

Piero Stefani


[1] Cf. Enchiridion della pace, vol 1,Pio X- Giovanni XXIII.  EDB, Bologna 2004, nn- 19-20.

[2]G. Bonola, Rivelazione, monoteismo e violenza. Variazioni con controcanto su temi di Jan Assmann, in Humanitas 5/2103.

470_Un Dio punitore? (23.03.2014)ultima modifica: 2014-03-22T10:48:06+01:00da piero-stefani
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