238 – Per non dimenticare Antiochia (22.02.09)

Il pensiero della settimana, n. 238 

 

L’anno paolino continua a proporre a proposito (e a volte a sproposito) occasioni per ripensare all’Apostolo delle genti (Rm 11,13). Queste circostanze non mancano, a volte, di rendere evidente ai nostri occhi l’abissale distanza che ci separa dal modo in cui si viveva la fede all’origine della predicazione dell’evangelo.

 

Ogni 25 gennaio la Chiesa cattolica celebre una festa  chiamata  «Conversione di S. Paolo»; ogni 29 giugno si festeggiano, all’insegna di Roma, congiuntamente Pietro e Paolo. Sono entrambe ricorrenze consolidate, ma esse risulterebbero alquanto sconcertanti se, liberati da forti precomprensioni armonizzanti, leggessimo in presa diretta le lettere autentiche  di Paolo

 

L’inno delle Lodi mattutine del 25 gennaio propone per Paolo il testo comune a tutti gli apostoli. Vi è scritto: «O apostoli di Cristo, / colonna e fondamento / della città di Dio! /Dall’umile villaggio / di Galilea salite / alla gloria immortale…».  Nonostante il fatto che nel Nuovo Testamento l’impiego della parola «apostolo» sia molto articolato, resta preponderante l’idea che esso si riferisca soltanto a uno dei Dodici. Ciò induce a evocare un  villaggio della Galilea  anche nel caso di colui che è nato  nella città di Tarso nell’attuale Turchia. Sembra di dover concludere che se il diasporico Paolo è un apostolo, egli deve essere in qualche modo associato a coloro che  sono stati scelti da Gesù e investititi di un potere da loro trasmesso ai propri successori, i vescovi, giù giù fino a oggi. Ma nulla di tutto ciò si può ricavare da quanto Paolo dice di se stesso: egli si qualifica «apostolo per chiamata, messo da parte per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1).

 

Qui non c’è posto per alcuna conversione: tutto va riferito all’azione di Dio che opera «senza mediatori». Il modello richiamato da Paolo è quello profetico. In effetti quando l’Apostolo delle genti allude alla sua chiamata si paragona in modo scoperto a Geremia. Basta ciò per dichiarare inadeguata la parola conversione: quando mai l’abbiamo udita impiegare nel caso della chiamata di Simone, di Andrea, di Giacomo, di Giovanni e così via? Ormai non c’è più alcuno studioso in grado di affermare che Paolo, sulla via di Damasco, si è convertito perché da ebreo è diventato cristiano. Tuttavia al riguardo non basta neppure sostenere che egli, in virtù di una rivelazione inattesa, è diventato un ebreo credente in Gesù Cristo. Quanto avvenne fu che Dio lo investì di un compito e che nessuno si è interposto o ha certificato la validità di quella chiamata. Paolo non è Agostino; egli non vive in sé un processo di delusione e di conversione che a poco a poco lo porta alla fede. L’unico paragone possibile è quello da lui stesso proposto con Geremia (o al più con altre improvvise chiamate profetiche come quelle di Amos): «quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre (Ger 1,5) e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi tra le genti, subito, senza  consultare carne e sangue [vale a dire quanto è umano], senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia…» (Gal 1,15-17). La chiamata di Paolo è celebrazione della assoluta libertà di Dio ed essa si riflette nell’autonomia affermata, da colui che è chiamato, nei confronti di ogni vincolo umano.

 

Si dirà che, sia pure quattordici  anni dopo, Paolo va a Gerusalemme esponendo alle persone più autorevoli il proprio vangelo per timore di aver corso invano. Sia pure in ritardo sembra perciò sottoporsi a un controllo. Si tratta di un’impressione errata. Prima di tutto, egli afferma di esserci andato a seguito di una rivelazione. Lungi dall’essere convocato, è perciò Dio stesso a mandarlo (allora nessuno poteva immaginare che sarebbe nato il Sant’Uffizio, ora Congregazione per la dottrina della fede). In secondo luogo, Paolo paventa di aver corso invano non perché covasse dei dubbi su quanto da lui annunciato. Il discorso va capovolto: Paolo avrebbe operato a vuoto se quelli di Gerusalemme non avessero condiviso il suo vangelo. La prova vivente di tutto ciò è che gli ebrei Paolo e Barnaba salgono a Gerusalemme portando con loro il gentile Tito a cui nessuno impose di essere circonciso (Gal 2,3); se, di contro, fosse stato obbligato a farlo, l’Apostolo delle genti avrebbe vista frustata tutta la propria azione. Dunque a Gerusalemme il gentile credente viene accolto dalle autorità per quello che è. Sono le colonne della Chiesa (Gal 2,9) a doversi conformare a chi viene da fuori e non viceversa.

 

La scena di Gerusalemme trova il proprio corrispettivo complementare ad Antiochia. Il vangelo viene infatti vagliato più qui che nella città santa. Quel che è  affermato a Gerusalemme va confermato ad Antiochia. Alcuni della parte di Giacomo vengono in quest’ultima comunità per imporre ai gentili usi giudaizzanti. La loro azione è a tal punto efficace da trarre dalla loro parte Pietro e, in seguito,  persino Barnaba. Paolo allora non esita a proclamare che tutti costoro vanno contro il vangelo (Gal 2,14). La libertà della fede nata dalla chiamata di Dio, ora si manifesta nella franchezza di contrapporsi all’autorità venuta da Gerusalemme: «Ma quando Cefa [Pietro] venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto» (Gal 2,11).

 

Nella storia della Chiesa si afferma che Pietro ha avuto centinaia di successori; sull’altro fronte tutto lascia intendere che Paolo ne ha avuti invece assai pochi,  nessuno dei quali è giunto fino ai nostri giorni.

Piero Stefani

 

 

 

238 – Per non dimenticare Antiochia (22.02.09)ultima modifica: 2009-02-21T00:00:00+01:00da piero-stefani
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